3 nov – Guardia alta contro il terrorismo e i ‘foreign fighers’. Siamo di fronte a minacce asimmetriche che necessitano di una risposta internazionale, e del lavoro ‘sul campo’ dell’Intelligence. Ansoino Andreassi, già capo dell’Ucigos, vice capo della polizia e vice direttore del Sisde, analizza la situazione del terrorismo di ieri e di oggi, dopo le parole del ministro della Difesa Roberta Pinotti, che ieri ha espresso preoccupazione per la crescita di aderenti all’Is, tra cui 50 italiani.
”Sull’Occidente e sui paesi arabo-moderati incombe oggi la minaccia del fondamentalismo islamico impersonata dall’Isis, il califfato autoproclamatosi e insediatosi nel nord dell’Iraq e nell’est della Siria che sembra aver strappato il vessillo del jihad dalle mani di Al Qaeda impugnandolo con rinnovata ferocia per condurre una vera e propria guerra di espansione nell’intera regione e contro tutti i veri o presunti nemici di quello che gli esponenti dell’Isis ritengono il vero Islam del quale essi soli sarebbero depositari e difensori”, dice Andreassi in un intervento per Adnkronos.
”Si tratta di una guerra atipica o non convenzionale – fa notare Andreassi – che prescinde dai trattati internazionali che regolano i conflitti tra gli Stati e che viene praticata con modalità terroristiche di inaudita ferocia e senza il rispetto dei più elementari diritti umani (ne sono evidente dimostrazione le decapitazioni di ostaggi e gli altri spaventosi supplizi cui vengono sottoposti i nemici o presunti tali, siano essi donne, bambini o vecchi). A ciò – prosegue l’ex capo dell’Ucigos – si aggiungono i messaggi minatori contro la coalizione di Paesi guidata dagli Stati Uniti per contrastare l’aggressione dell’Isis e per soccorrere le popolazioni irachene, siriane e curde che ne subiscono le conseguenze, aggressioni verbali che finora non si sono concretate in attacchi contro obiettivi occidentali fuori della regione teatro del conflitto (i legami con l’Isis dell’autore del recente attentato in Canada appaiono tuttora incerti)”.
”I governi dei Paesi occidentali – sottolinea Andreassi – temono che le minacce siano concrete e che possa quindi ripetersi quanto accaduto quando l’iniziativa jihadista era nelle mani di Al Qaeda, che, come noto, prediligeva colpire il nemico in casa propria. Anche le autorità di governo italiane e i responsabili della sicurezza hanno più volte sottolineato che il pericolo jihadista è tutt’altro che virtuale e che è necessario agire alacremente sul piano della prevenzione e dell’intelligence per evitare brutte sorprese”.
”A livello di opinione pubblica invece – è l’analisi dell’ex vice direttore del Sisde – il rischio di attentati jihadisti in territorio nazionale mi pare che venga percepito come remoto, non solo perché non vi sono stati finora attentati in patria nonostante le ripetute minacce, ma anche perché, almeno credo, quel tipo di terrorismo appare geograficamente lontano e sostanzialmente estraneo al nostro mondo anche se basterebbe pensare a quanto accaduto appena qualche anno fa a Londra e a Madrid per convincersi del contrario”.
”In questo difetto di percezione – ragiona Andreassi – gioca un ruolo più o meno significativo a seconda dell’età e della esperienza dei singoli, anche il ricordo degli anni di piombo quando le varie forme di terrorismo interno (Brigate rosse, gruppi neofascisti, stragismo) erano state viste nascere e svilupparsi all’interno del paese in connessione con le vicende politico-sociali di allora, sia nazionali sia internazionali, e diffuso era il timore che costituissero un serio pericolo per le stesse istituzioni democratiche”.
Ma ”la questione non si pone oggi in questi termini – fa notare Andreassi – Al Qaeda, gli altri gruppi fondamentalisti e ora l’Isis non si muovono secondo le logiche e i moduli delle bande attive un tempo in Italia e in Europa (clandestinità, covi, area di consenso etc.) e non passano attraverso una fase di propaganda e di attentati dimostrativi prima di portare l’attacco a livelli più alti. Mi pare insomma che il jihadismo consista in qualcosa di diverso dal terrorismo che abbiamo sperimentato, che non sia cioè interessato a condizionare o a sovvertire i nostri assetti istituzionali; che prescinda poi da inquadramenti organizzativi o da gerarchie come noi li intendiamo; che non si articoli insomma in direzioni strategiche, comitati esecutivi, colonne, cellule e che l’arruolamento dei militanti non avvenga nei modi a noi noti”.
Per l’ex capo dell’Ucigos ”consiste piuttosto in un appello lanciato da chi assume in virtù del proprio carisma la funzione di guida spirituale e militare di una moltitudine di credenti e al tempo stesso di combattenti, un appello che oggi, anche in virtù della rete telematica, travalica senza problemi le frontiere della terra di origine per raggiungere in un batter d’occhio i credenti in ogni parte del mondo, incitandoli ad impugnare la spada contro gli infedeli in quanto tali e in quanto alleati degli Usa e ad attaccarli nei modi ritenuti più praticabili, senza richiedere alcuna autorizzazione ma seguendo le linee generali indicate dal califfo”.
E c’è di più. ”Il jihadismo – rimarca Andreassi – dispone di un’arma di tremenda efficacia che nessun’altra delle “nostre” organizzazioni terroristiche possedeva e contro la quale anche le misure di prevenzione più accorte si dimostrano raramente efficaci: la vocazione suicida assunta a metodo di combattimento”.
”Ali Muhamed Al Adnani, indicato come portavoce dell’Isis – ricorda ancora Andreassi – in un lungo video-messaggio, dopo aver esordito con un brutale attacco a Roma e alla cristianità, ha incitato ogni fedele ad uccidere ‘i miscredenti… in qualunque modo possibile e immaginabile’, aggiungendo che se l’Occidente non lascerà l’Iraq ‘saremo noi a portare il jihad nelle vostre terre’. Da tali premesse discende la grande pericolosità di queste forme di fanatismo che, tradendo l’essenza stessa della religione islamica, possono trovare terreno fertile non solo nelle sacche di disagio delle comunità musulmane sparse per il mondo, ma anche lì dove l’integrazione pare un fatto compiuto, cioè un processo positivo che ha attraversato due o tre generazioni sfociando addirittura nell’acquisizione della cittadinanza e nell’inserimento del mondo del lavoro, come è accaduto per gli autori degli attentati di Londra”.
Per l’ex capo dell’Ucigos, ”c’è allora da chiedersi se nei contesti nei quali i processi di integrazione sembrano avanzati e ben collaudati siano in realtà tali e non siano invece processi di assimilazione più o meno forzosa. Ma quel messaggio, in apparenza improbabile e profondamente barbaro, ha mostrato di avere una perfida forza di attrazione anche nei riguardi di individui di origine e consolidata cultura occidentale che si sono convertiti all’Islam e che sono stati poi avviati all’indottrinamento e all’addestramento e hanno fatto poi esperienze di guerra in Bosnia, in Iraq, in Siria o in Afganistan, eguagliando in ferocia i loro maestri”.
”Questo – prosegue Andreassi – deve essere stato il percorso seguito, ad esempio, dal carnefice del giornalista americano James Foley e del cooperante britannico Alan Henning, considerato che, nei video agghiaccianti che hanno fatto il giro del mondo, egli si esprime in un inglese che può parlare solo chi è cresciuto ed è stato educato nel Regno Unito”.
”Il fenomeno dei convertiti all’Islam che entrano nel circuito sotterraneo e perverso che li porta al jihad – rimarca l’ex vice direttore del Sisde – è dilagato in pochi anni per il mondo e investe ora molti Paesi occidentali, Italia compresa dove i mujahidin ‘home grown’ sarebbero, secondo i nostri servizi di intelligence, diverse decine e bisognerebbe chiedersi se tutto si riduca a pochi individui mentalmente disturbati o se invece essi costituiscano il segnale di un disagio sociale suscettibile di espansione anche in questa e in altre direzioni”. adnkronos