14 ottobre – Il principio della ciclicità delle crisi argentine ha trovato una recente conferma. Lo Stato sudamericano rischia un ennesimo default dopo la decisione della Suprema Corte degli Stati Uniti che ha respinto l’appello contro la sentenza del giudice della Corte di New York, Thomas Griesa, che l’aveva condannato a pagare circa millecinquecento milioni di dollari a favore dei titolari di alcuni fondi speculativi. Di che si tratta
? A seguito del default del 2001-2002, moltissimi possessori di bond negoziarono una riduzione del debito e una dilazione da trenta a quarant’anni, col pagamento d’interessi annuali fino all’otto per cento. Viste le condizioni finanziarie del paese sudamericano la stragrande maggioranza dei risparmiatori (per un capitale pari al novantatré per cento del valore dei titoli) decise d’accettare la transazione che, peraltro, servì al governo di Buenos Aires per ritornare sui mercati internazionali. Queste due “ristrutturazioni” dei debiti avvennero, la prima, nel 2005, per opera di Nestor Kirchner e del ministro dell’Economia Lavagna e la successiva del 2010, operata dalla consorte e dall’allora – oggi vicepresidente – ministro dell’Economia Boudou. Tra le condizioni dell’emissione dei nuovi titoli di debito, come nelle precedenti emissioni, era prevista la giurisdizione dello Stato di New York come giudice competente per le eventuali controversie. Non tutti i risparmiatori accettarono però la proposta transattiva. I possessori di circa il due per cento del capitale (in maggioranza acquisiti da fondi speculativi che avevano rastrellato i bond pagandoli a prezzo stracciato, evidentemente tra coloro che non intendevano aspettare trent’anni per essere parzialmente risarciti) si rivolsero così alla giustizia nordamericana.
Il procedimento giudiziario fu accompagnato da clamorose misure cautelari, tra cui il sequestro, avvenuto nel 2012 in un porto del Ghana, della nave scuola della Marina argentina “Libertad” che lì stava alla fonda (la nostra Amerigo Vespucci, per intenderci), poi revocato. Ma non è tutto: 6150 milioni di dollari – che cogli interessi potrebbero lievitare a ventimila milioni circa – sono pretesi da altri titolari di bond che non avevano accettato la transazione e avevano promosso il giudizio davanti ad altri tribunali – soprattutto britannici, oltre che davanti al CIADI, la corte arbitrale del Banco Mondiale a cui si sono rivolti creditori italiani.
Inoltre, i risparmiatori newyorkesi che avevano patteggiato riduzione e dilazione, potrebbero, sulla base d’una clausola legale di diritto statunitense, pretendere il pagamento dell’intero. La Kirchner ha accusato la giustizia americana e i titolari dei “fondos buitres” (da buitre, avvoltoio) di manovre estorsive ma ora si trova imprigionata tra demagogia e cruda realtà. Rimangono alcuni dati incancellabili: in primo luogo il fallimento delle manovre finanziarie operate anche dalla sua amministrazione e da quella del suo defunto marito; e, soprattutto, la totale remissività dei due Kirchner, e dei precedenti presidenti, rispetto alle pretese creditorie delle entità finanziarie internazionali, che costituiscono la massa critica dell’enorme debito accumulato dall’Argentina (ad oggi pari a duecentoquaranta milioni di dollari, anche se, secondo alcuni esperti, l’importo complessivo arriva a trecentotrenta milioni, considerando sessantamila processi intentati dai pensionati verso lo Stato), a partire dagli anni del regime militare, quando furono nazionalizzate le obbligazioni delle imprese argentine verso l’estero. Invece di contestarne la legittimità e chiedere davanti alla giustizia argentina ed anche internazionale la verifica del debito (sia con riguardo al calcolo degl’interessi che ormai superano ampiamente il capitale, sia alle spaventose commissioni lucrate dalle banche d’affari intermediarie) tutti i governi (tranne il solo presidente Rodriguez Sà che, in occasione del suo breve mandato chiese, invano, che il Congresso ne verificasse la legittimità) non obbiettarono alcunchè, e continuarono a piagnucolare e pagare – “pagatori seriali”, così qualcuno ha definito i presidenti, dal default in poi – facendo ricadere sugli argentini le loro negligenze.
A cominciare dalla famosa manovra del 2002, quando i dollari depositati nelle banche furono congelati e convertiti in pesos (vigente la parità valutaria) salvo poi svalutare la moneta nazionale del 250% rispetto alla valuta americana ed abolire la parità, fino al saccheggio dei fondi destinati ai pensionati che lo Stato ha usato per pagare i propri debiti. Alla crisi finanziaria s’aggiungono pesanti guai giudiziari che coinvolgono i vertici del governo.
Il vicepresidente Boudou è accusato d’essersi di fatto impossessato, attraverso manovre fraudolente ed una società di comodo, la “Old Fund”, gestita da un suo prestanome, dell’impresa “Ciccone Calcografica” titolare di contratti milionari collo Stato per la stampa delle banconote (poi incaricata dal “Frente para la Victoria” kirchnerista della stampa dei suoi bollettini di voto – in Argentina ogni partito deve stamparsi le proprie schede elettorali). Dichiarata fallita per debiti verso il fisco, la “Ciccone Calcografica” era stata improvvisamente riscattata dalla “Old Fund” ottenendo favorevoli ed insolite condizioni di rientro dall’AFIP, l’Ufficio delle Entrate argentino. Successivamente nazionalizzata dalla Fernandez-Kirchner (ciò che permise temporaneamente di coprire la magagna) ancora non si è saputo chi ha beneficiato del relativo indennizzo.
L’impressione che si trae da questa nuova stagione di processi alla corruzione è che la magistratura, qui sempre legata all’esecutivo (la tripartizione classica di Montesquieu è in Sud America una pia illusione), abbia fiutato l’aria e voglia riprendersi i propri spazi di manovra, considerata la caduta verticale del kirchnerismo e i regolamenti di conti che, verosimilmente, il cambio di governo determinerà. La pesante situazione economica, l’enorme debito pubblico, la crescente pressione fiscale, gli scandali giudiziari, stanno minando la già precaria compattezza del governo e non si escludono dimissioni anticipate – rispetto alla scadenza naturale di ottobre 2015 – della Presidente. I candidati più accreditati, Sergio Massa, Daniel Scioli e Maurizio Macri non hanno perso tempo: si sono già recati in visita negli Stati Uniti ed hanno invitato il governo a pagare i debiti. Che nessuno quindi s’illuda su una possibile discontinuità rispetto all’andazzo degli ultimi trent’anni; al di là delle ridondanti proclamazioni patriottiche (che il Mundial brasiliano ha puntualmente amplificato) la classe politica argentina non ha, allo stato, nessuna strategia di medio-lungo termine, se non quella di continuare a chinare la testa.
Gianni Correggiari