30 luglio – “Il governo ha chiuso i teatri, i cinema, i bar, tutti i luoghi di aggregazione, e ha rimandato a fine agosto gli esami pubblici di terza media previsti a luglio. La tensione comincia a sentirsi anche qui a Freetown”, ha raccontato Nicola Orsini, da anni impegnato in Sierra Leone per la ong italiana Fondazione Avsi, sull’epidemia di Ebola che ha raggiunto la capitale dopo che sembrava che i contagi fossero circoscritti alle regioni orientali di Kenema e Kailahun.
Da giugno il governo e la società civile hanno rafforzato le misure di prevenzione per fermare il contagio: oltre ai checkpoint per circoscrivere l’epidemia, i centri sanitari dedicati, sono i luoghi pubblici a essere stati oggetto delle misure precauzionali più severe. Nei supermercati i gestori invitano tutti i clienti a lavarsi le mani con acqua e cloro, l’unica sostanza in grado di uccidere il virus, messa a disposizione agli ingressi.
Nelle chiese, durante le messe, sempre affollate in un paese con il 15% della popolazione cristiana, non ci si stringe più la mano: lo scambio di pace è stato sostituito da un inchino con la mano destra sul cuore, e il sacerdote dà l’eucarestia nelle mani e non più direttamente in bocca. Abitudini costrette a cambiare, segnali piccoli, ma che amplificano il senso di paura tra la popolazione.
Stando agli ultimi dati forniti oggi dal ministero della Sanità di Freetown, sono 489 i casi di Ebola accertati in Sierra Leone, di cui 159 mortali, mentre altri 121 pazienti sono sopravvissuti. E ieri è deceduto il medico “eroe” della lotta al virus, il dottor Omar Khan. tiscali