Riscossa Italiana “La Costituzione di cui l’Italia ha bisogno”

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occorre aprire gli occhi sul fatto che, oggi l’euro, accompagnato dal complemento inevitabile dei suoi vincoli fiscali, è antitetico alla funzione statale di garanzia dei veri diritti fondamentali

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Luciano Barra Caracciolo, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato interviene al Convegno di Riscossa Italiana che si è svolto al Palazzo della Provincia di Napoli. lo scorso 11 Luglio. Il suo intervento: Nel pubblico dibattito odierno la più comune e scontata giustificazione offerta per introdurre ampie e radicali proposte di intervento sulla Costituzione del 1948, è che essa sia vecchia e superata. A malapena si esplicita la ovvia e drammatica conseguenza che questo giudizio debba essere in realtà esteso al modello sociale ed economico che essa stabiliva. Cioè il modello di quella che Mortati definì la “democrazia necessitata” fondata sui diritti sociali, primo quello al lavoro, e sull’eguaglianza sostanziale come prioritarie guide delle politiche pubbliche. Mortati precisava che essa fosse “necessitata” perché, dopo 150 anni di lotte sociali seguite alla rivoluzione industriale e di tragedie conseguenti alla mancata soluzione dei problemi conseguenti, o la democrazia vive in queste forme “o, semplicemente, non è”. L’obiezione più forte che, sul piano storico ed economico-sociale, si può muovere alla “vulgata” che la Costituzione sia vecchia è che le teorie normative ed il modello sociale che ad essa si vorrebbero sostituire sono ben più vecchi e sicuramente datati di quello accolto nel 1948; e ciò è attestato dalla stessa sequela di effetti fallimentari che l’economia liberista, ora prepotentemente riemergente, aveva provocato, tra cui i grandi traumi della crisi del ’29, della Rivoluzione russa e dello stalinismo, dello stesso avvento del fascismo e del nazismo. Non si riflette mai abbastanza su quanto sia pericolosa l’incapacità di ricordare la vetustà di queste riedite teorie economiche, determinanti una vera “reazione” se non, ormai, un’aperta revanche sugli assetti democratici predicati dal costituzionalismo contemporaneo A onor del vero, i modi in cui queste teorie sono state riproposte in Italia sono riassumibili nell’ambito della c.d. “costruzione europea”: e questo imponendo la suggestione salvifica di un’utopistica cooperazione economica che, nella realtà storica, non è mai propria dell’internazionalizzazione liberoscambista in cui si concreta l’Unione e, specialmente, la sua moneta unica. Ma queste suggestioni sono risultate enormemente efficaci. Una combinazione di controllo mediatico e di spinta accademico-culturale hanno portato al suddetto oblio delle radici democratiche necessitate della nostra Costituzione. Il movimento che si è fatto portatore di questa strategia può essere denominato “ordoliberismo”, termine sulla cui portata mi limito a rinviare a quanto scritto in altre occasioni.

Sta di fatto che il fulcro attivo dell’ordoliberismo, cioè la teoria del “vincolo esterno”, ha avuto una pretesa addirittura etica, in realtà, basata sulla manipolatoria sovra-enfatizzazione dei difetti fisiologici della democrazia: la spesa pubblica sociale, l’acritica demonizzazione del deficit di bilancio come mezzo di redistribuzione del reddito e di creazione del risparmio diffuso delle famiglie, si sono accoppiate alla stessa falsificazione mediatica dei dati reali sulla crescita del reddito nazionale legata al modello interventista industriale prescelto nella Costituzione. Abbiamo assistito impotenti, come comuni cittadini, a questa operazione di oblio frammista ad un’accesa manipolazione dei dati: sul livello della spesa e del debito pubblico anteriori alla entrata nello SME ed al divorzio Tesoro-Bankitalia, sui reali (e ben minori) livelli di disoccupazione ad essi precedenti, sui livelli di crescita dei decenni anteriori agli anni ’80, e sull’alterazione della distribuzione delle quote del reddito nazionale, tra lavoro e profitti specialmente finanziari. Questi fatti traumaticamente modificativi delle aspettative collettive di crescita e di mobilità sociale sono poi culminati nell’accelerazione del trattato di Maastricht e dell’applicazione a tappe forzate dei suoi criteri di convergenza verso la moneta unica.

La giustificazione “etica” di tale negativizzazione di tutto ciò su cui si era basata, per usare le parole dello stesso Guido Carli, la crescita e il benessere di cui avevano potuto godere l’Italia nei primi tre del dopoguerra, si è quindi concretizzata nella generalizzata accusa di “corruzione e clientelismo”, additati come i presunti mali economici e sociali da risolvere; ciò ha preteso, riuscendovi, di legittimare la necessità di disattivare la precedente “politica” e gli strumenti costituzionali in cui si era espressa, senza alcuna seria dimostrazione e alcun oggettivo riscontro di ciò nei dati reali. E, specialmente, senza mai considerare l’ipotesi che ben altri rimedi si potevano, e tutt’ora si possono proporre, per correggere questi inconvenienti. Questa vicenda politico-culturale, o meglio propagandistica, restauratrice dell’economia neo-classica anteriore alla crisi del ’29, ha prodotto prima la diretta disattivazione, da parte dei trattati “europei”, della Costituzione c.d. economica, e poi, come sua inevitabile conseguenza, la successiva destrutturazione dei diritti fondamentali, segnatamente della grande conquista del valore fondativo dei diritti “sociali”, quelli di c.d. terza generazione. L’operazione è riuscita a livello di imposizione di politiche economico-fiscali per la preponderante capacità di pianificazione e di finanziamento che il capitalismo finanziario ha potuto mobilitare sul piano accademico e mediatico: ma questa è vicenda assai nota, sulla quale le testimonianze, – anche dei maggiori premi Nobel, come Stiglitz, Krugman, Galbraith, o di altri grandi economisti, come De Grauwe e Chang-, rimangono tuttavia voci praticamente inascoltate; sicuramente in Italia, tetragona ed aggrappata alla dogmatica ordoliberista del “vincolo esterno”. Sul piano giuridico-costituzionale la prevalenza del pensiero registrabile, l’equivalente del mainstream economico, si è incentrata sulla “illusione” della sostituibilità al modello della Costituzione economica del principio della concorrenza. La invasività di tale illusione, puramente ideologica e derivante dalla presunta superiorità etico-culturale del modello europeo, in una irresistibile esterofilia che affligge periodicamente la comunità italiana, ha condotto, sul piano della riflessione costituzionale, a quello che si può definire l’eurostrabismo.

Esso è stato tanto più forte quanto più l’internazionalizzazione economica, liberoscambista, offerta da Maastricht si è saldata con l’ulteriore vulgata della inevitabile “globalizzazione”, dimenticando di spiegare agli italiani che quest’ultima, come la stessa UE, è null’altro che una creazione istituzionale, umana e fallace, e per di più condotta sul terreno di organizzazioni internazionali, come il FMI, il WTO, l’OCSE, la World Bank. Questi organismi hanno agito sotto la crescente influenza del capitalismo finanziario prevalente, imponendo non solo la prevalenza de facto del diritto internazionale sulle Costituzioni democratiche, ma la stessa privatizzazione del diritto internazionale così elaborato. Privatizzazione degli interessi sottostanti, ovviamente, per quanto corrispondenti a enormi organizzazioni economiche sempre più decise a impadronirsi di una influenza dominante nel determinare le politiche degli Stati costituzionali democratici. In questo scenario, l’EUROSTRABISMO, cioè l’indifferenza etico-ideologica dei giuristi a oltre 20 anni di crescente disapplicazione della Costituzione, si rivela dunque il frutto di un “fattoide” giuridico: e cioè che il principio di (libera) concorrenza, unito a quello della “neutralità della moneta” siano anzitutto corrispondenti, come potenzialità realizzabili, alla realtà del capitalismo “reale. Ed invece, alla prova dei fatti storici, già con la crisi del ’29 si evidenziò l’inadeguatezza della teoria economica liberista, di fronte alla schiacciante prevalenza di oligopoli e monopoli nella struttura della produzione. Si è cioè dato per scontato che tali principi potessero assurgere a pari dignità rispetto a quelli dell’intervento pubblico disegnato nella Costituzione economica, mitigatore dei fallimenti del mercato e degli equilibri distruttivi della “sottoccupazione” derivanti dai primi. Come conseguenza di tale diffusa supposizione dei giuspubblicisti, svincolata da dati e adeguate conoscenze economiche, si ritiene che la disattivazione della Costituzione economica, e con essa le privatizzazioni e liberalizzazioni, siano uno strumento neutrale, ininfluente sui principi fondamentali della Costituzione, e come tale, “equivalente e moderno” nel perseguimento del benessere e della piena occupazione.

Colpevolmente o meno che sia, questa concezione porta ad un enorme e inavvertito inconveniente: il riduzionismo della democrazia a “metodo” (idraulico-sanitario), che è un portato del neo-liberismo, esplicitamente teorizzato dal suo esponente più influente sulla costruzione europea, cioè von Hayek. Per Hayek la democrazia come metodo è la pura espressione elettorale svincolata da un quadro di valori sociali irrinunciabili, quindi una sorta di sondaggismo permanente e corrispondente all’agenda degli interessi economici prevalenti; egli intuì che in chiave di struttura economica sovranazionale, la democrazia come “metodo” produceva l’auspicato effetto della definitiva ed irreversibile “dispersione della sovranità” (di cui ha anche parlato Giuliano Amato). Questa dispersione restituirebbe l’efficiente struttura del capitale contro la presunta ingiustizia dei diritti sociali pluriclasse, visti come ingiustificabili privilegi limitativi della “libertà” sancita da una Legge allo stato naturale, superiore alla stessa legislazione costituzionale. Abbracciare questo approccio, senza saperne stimare le conseguenze economiche prima ancora che sociali, indebolisce perciò i presupposti di qualsiasi contrasto al riduzionismo della democrazia a puro “metodo” e al sondaggismo: rimane infatti insoluto il problema dell’effettiva conservabilità dei valori fondamentali di una democrazia del lavoro come quella disegnata dalla Costituzione primigenia. E da ciò deriva l’incapacità di comprendere che la vera grund-norm della costruzione europea incentrata sulla moneta unica non è la libera concorrenza (puro mito astratto e deduttivistico) quanto la “forte concorrenza” tra Stati-sistema (non tra imprese!), la stabilità dei prezzi e il concetto di piena occupazione neo-classico (cioè di sottoccupazione del lavoro deflazionato). Da qui anche la sopravvalutazione del sistema antitrust e delle autorità indipendenti, che sono il rafforzamento e non il bilanciamento sociale della prevalenza del neo-liberismo istituzionalizzato (cioè dell’ordoliberismo sovranazionale).

Ed infatti, la piena concorrenza, vista come libero gioco e incontro della domanda e dell’offerta, nella struttura attuale, comune a tutto il capitalismo avanzato, caratterizzato dall’oligopolio, dai poteri di mercato e dalla relativa prevalente finanziarizzazione, finisce con sempre più drammatica evidenza per applicarsi solo al mercato del lavoro, ripristinandosi così il lavoro-merce, cioè la negazione del suo legame costituzionale con la dignità e lo sviluppo della persona. Questa rimercificazione è particolarmente connessa al sistema della moneta unica, incentrato sui capisaldi della banca centrale indipendente e proprietaria di una moneta che non appartiene più né a uno Stato nazionale né a un governo federale capace di sviluppare politiche economiche autonome di correzione degli inevitabili squilibri interni all’unione monetaria; un’unione che risulta così affrettatamente e autoritariamente imposta sull’assenza, anzi sull’esplicito divieto, di ogni solidarietà fiscale tra gli Stati coinvolti (artt.123-125 TFUE).

Le stesse problematiche dal capitalismo oligopolistico e finanziario, con le sue logiche basate sulla repressione dell’inflazione, e quindi dei livelli salariali, e sulle aspettative speculative ad alta instabilità finanziaria, si erano già viste all’opera nella crisi del ’29. In quella occasione, l’ortodossia economica, esattamente come oggi, si era rivelata incapace di offrire rimedi alla crisi, ostinandosi nell’idea che il mercato si correggesse per sua forza spontanea, ritrovando la piena occupazione. E ottenendo, in questa ostinazione “politica”, null’altro che i risultati opposti. Ciò che tutt’ora si nega è che esista una crisi da domanda e le proposizioni delle autorità monetarie ed economiche, europee e degli Stati membri, ripercorrono la stessa apparente fiducia che valga ancora la Legge di Say, per cui la produzione genera sempre il flusso di reddito che ne consente il consumo e il necessario investimento. La scarsità di domanda era ammessa come possibile solo come fenomeno transitorio, inevitabilmente correggibile con l’abbassamento delle pretese salariali, considerate rigide e illegittimamente gonfiate dalla presenza anticoncorrenziale dei sindacati. Se non poteva esistere una scarsità di domanda, ma solo squilibri del mercato del lavoro, non potevano esserci, ieri come oggi, argomenti a favore di un’azione pubblica di sostegno alla domanda. Oltre a non essere necessaria, una tale azione violava i canoni di una finanza pubblica “sana”. Il governo, si diceva e si dice, come una famiglia privata, deve vivere dei suoi mezzi e senza contrarre debito: da qui la neo-mitologia del pareggio di bilancio e di quella autentica via per l’infelicità collettiva dei tanti, sacrificati all’avidità dei pochi creditori che concentrano la ricchezza, che Keynes definì “l’incubo del contabile”.

Dunque la Costituzione del 1948, ed in un modo che si rivelò egregio, almeno nelle soluzioni adottate dall’Assemblea costituente, ieri come oggi, interviene a regolare tutti questi problemi posti dai fallimenti dei mercati e dalla inevitabile tendenza di questi alla instabilità finanziaria. Essa prese atto di 150 anni di impotenza delle teorie liberiste a risolvere problemi causati dagli stessi fenomeni che si manifestano oggi e agì di conseguenza. Stabilì perciò dei valori fondamentali non negoziabili in sede internazionale e una Costituzione economica che ne costituisse l’imprescindibile presidio, mediante l’intervento macroeconomico dello Stato, salvando però la libertà dell’iniziativa d’impresa nell’ambito delle immutate regole microeconomiche. L’innovazione tecnologica e la dimensione industriale crescente, non governate dalla mano pubblica, e latitando il funzionamento effettivo della famosa “mano invisibile del mercato”, che Smith derivò da S.Tommaso D’Aquino, aggravano i problemi del capitalismo contemporaneo nella stessa internazionalizzazione degli scambi. Siamo di fronte, quindi, a un fallimento che ci si ostina a replicare, ignorando dati economici evidenti e dinamiche ed effetti che in un recente passato erano visti come scontati, perché già consegnati alla Storia come esempi dei più insidiosi pericoli che alla democrazia “necessitata” potesse portare lo strapotere dei pochi sui molti; alla democrazia “necessitata”, cioè all’unica possibile ed effettivamente vissuta nella Storia degli Stati moderni.

In sintesi, occorre aprire gli occhi sul fatto che, oggi l’euro, accompagnato dal complemento inevitabile dei suoi vincoli fiscali, è antitetico alla funzione statale di garanzia dei veri diritti fondamentali. La sua pretesa neutralità, smentita dai drammatici squilibri commerciali e dalle relative posizioni debitorie che si sono drammaticamente accumulate nell’Unione monetaria, non può essere legittimamente accettata come strumento di messa in sospensione della Costituzione italiana: e ciò, né alla luce dei limiti posti dall’art.11 Cost. per l’adesione a trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, né di quelli posti dall’art.139 per la stessa revisione costituzionale. Questi ultimi, ovviamente, per il modo in cui va intesa la immutabilità della forma repubblicana, vanno compresi tenendo conto delle risultanze dei lavori della Costituente e delle precisazioni della Corte costituzionale sui c.d contro-limiti (cioè dei limiti che l’ordinamento costituzionale sovrano deve poter opporre ad ogni forma di diritto internazionale). Su questi aspetti tentano di trovare delle soluzioni le proposte di emendamento costituzionale che seguono e che, spero, dopo questa introduzione, e quanto hanno detto e diranno anche gli altri relatori, vi parranno più comprensibili e necessarie. Quella che è in gioco, ormai, è la stessa sopravvivenza della democrazia, intesa come tutela di un sistema valori sociali fondamentali: il vallo costituzionale verso la barbarie di uno spietato liberismo, camuffato cosmeticamente in forme nuove, mostra ormai troppe crepe e “desuetudini” e si sente un’atmosfera di attacco finale che spinge verso un’inammissibile e definitiva rottura dell’ordinamento.

Al Convegno, che si è svolto Sabato hanno partecipato inoltre:, Antonio Maria Rinaldi, Docente di Finanza Aziendale, Luigi De Magistris, ex Magistrato e Sindaco di Napoli, Luca Cestaro, Magistrato del Tar Campania, Paolo Maddalena, vice Presidente emerito della Corte Costituzionale e Garante del Comitato scientifico, Francesca Donato, Presidente di Eurexit, Francesco Amodeo, Blogger. Ha moderato Angelo della Cave.

Ufficio Stampa Riscossa Italiana