2 magg – Capire tutto corrisponde a perdonare tutto, afferma un detto francese. Ma non è completamente vero. Si può forse capire che un Adolf Eichmann, stante la sua mediocre personalità, consideri un incarico burocratico qualunque, da eseguire puntigliosamente, quello di occuparsi dello sterminio di milioni di ebrei. Ma la “banalità del male” – di cui parlò Hannah Arendt assistendo al suo processo – non è una scusante e non rende assurda la vendetta dei sopravvissuti. Il giudice deve cercare di capire l’accusato al punto da pensare che, al suo posto, forse avrebbe fatto la stessa cosa. Ma per concludere: “In questo caso oggi condannerei anche me stesso”.
L’equivalenza comprendere=perdonare non funziona, e ancor meno funziona l’equivalenza condannare=comprendere. Al congresso del Sindacato Autonomo di Polizia i presenti hanno tributato una lunga ovazione di solidarietà agli agenti condannati ad anni di carcere per la morte di un arrestato per uso eccessivo della forza. Ciò ha provocato una tempesta di reazioni indignate, comprese quelle del Ministro dell’Interno e del Presidente della Repubblica. La condanna dunque è certa; lo è altrettanto la comprensione?
La prima indicazione che si può ricavare dall’episodio è l’esasperazione dei poliziotti, i quali si sentono abbandonati da quello stesso Stato che sono chiamati a servire. Temono che esso sia tenero con i manifestanti violenti al punto da volerli assolvere con ogni possibile scusa, anche quando cercano di ammazzare gli uomini in divisa, mentre rivede senza sconti le bucce di questi ultimi.
Non importa in che misura gli agenti di P.S. abbiano ragione o torto. Chi comanda i soldati deve convincerli della propria competenza e del rispetto che sente per loro: solo così ne otterrà il massimo rendimento. Se invece i fanti pensano che il Capo sia un imbecille che li manda a morire per niente, si arriverà agli ammutinamenti della Prima Guerra Mondiale. Il paragone non è azzardato. I poliziotti antisommossa somigliano più a dei soldati che a dei carabinieri alla ricerca di ladri. Nella polizia c’è una componente politica e militare che nel caso italiano mostra tutto il suo degrado.
Più importante è però l’occasione dell’episodio. Se i poliziotti avessero ritenuto i loro colleghi biechi assassini o anche semplicemente dei sadici indifferenti alla vita dei cittadini, probabilmente non li avrebbero applauditi. Da colleghi avrebbero avuto per loro una comprensione maggiore di quella dei normali cittadini ma non sarebbero arrivati all’ovazione. Invece, di tutta evidenza, li reputano condannati da innocenti: a quanto pare, la parola dei magistrati ormai non è credibile neanche quando è consacrata in una sentenza per omicidio. E questo fa spavento. La sfiducia nella magistratura si è insinuata anche in un corpo che con essa lavora a stretto contatto di gomito. Ciò è angosciante sia perché quella diffidenza potrebbe essere stata originata da esperienze maturate professionalmente, sia perché dalla collaborazione della forza pubblica con l’amministrazione della giustizia dipende la sicurezza della nazione.
Da qui ci si avventura in ipotesi che non è possibile dimostrare. Forse le vistose simpatie sinistrorse di una parte della magistratura hanno spinto i poliziotti a pensare che dinanzi al giudice godano più simpatie di loro gli emarginati, i rivoluzionari e i violenti. Ciò avrebbe indotto gli uomini che rischiano l’integrità fisica per servire lo Stato a sentirsi traditi e a non essere più sicuri della buona fede di coloro che dovrebbero sostenerli.
Un secondo elemento che rientra nelle ipotesi indimostrabili è la vicenda di Silvio Berlusconi. Se da quando è entrato in politica egli avesse avuto tre processi e due condanne, la situazione sarebbe normale. Se invece la Guardia di Finanza è stata inviata a rovistare per circa cinquecento volte nelle carte delle sue imprese e il Cavaliere ha avuto qualcosa come quarantatré processi, l’intento persecutorio è chiaro. Né risolleva l’immagine dei funzionari in toga il fatto che, salvo che nell’ultimo processo, Berlusconi non sia mai stato condannato.
Quello che importa ai cittadini – e anche i poliziotti sono cittadini – è che la gragnola di accuse – per la maggior parte infondate, come scritto nelle sentenze – prova ad usura la capacità di intento politico in chi le ha mosse. E se dei magistrati sono capaci di agire per motivi politici, perché non potrebbero aver agito per motivi politici anche quelli che hanno condannato i colleghi?
Probabilmente questa opinione è del tutto infondata, ma nel momento in cui si parla di sentimenti popolari poco importa. Il fatto che in Italia si pensi che ci siano state e ci siano troppe contiguità tra politica e giustizia è un danno incommensurabile. Molto più importante degli applausi nel congresso del Sap. Il termometro non è responsabile della febbre. Proprio non sappiamo fra quanti anni la magistratura riuscirà a riemergere dal baratro in cui l’hanno precipitata alcuni suoi membri che volevano salvare il Paese.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it