Nel 2003, il gruppo de Il parto delle nuvole pesanti aveva raccontato l’emigrazione in direzione della Germania dei suoi conterranei calabresi. Il tono del documentario Doichlandia di Giuseppe Gagliardi era anche scherzoso, perché in quel periodo storico ci si poteva ancora permettere di sorridere o di abbandonarsi alla musica e al canto.
Oggi, nel bel mezzo della crisi, quando abbandonare il proprio paese è diventata per molte persone la sola opportunità di assicurarsi un lavoro e di garantire un futuro alla propria famiglia, i toni sono diventati decisamente più disillusi.
E La deutsche vita raccontata nel documentario di Alessandro Cassigoli e di Tania Masi rischia di non essere così dolce come quella che Federico Fellini immaginava negli Anni Sessanta. O come credeva chi ha fatto le valigie alla volta di Berlino, in cui oggi vivono “ufficialmente” circa 20 mila italiani (assieme, secondo altre stime, ad altri 10 mila).
L’impulso per il documentario è arrivato dalla “crisi del settimo anno” di Alessandro, e dalla ricerca di una “terapia” per affrontare la presa di coscienza di essersi trasformato in un immigrato.
Arrivato a Berlino per cercare un lavoro, e poi rimasto nella capitale tedesca senza neanche sapere chiaramente la ragione per cui è finito (o sì è fermato) proprio lì, e perché è diventato così complicato lasciarla. Una consapevolezza che porta con sè un po’ di nostalgia di casa e di perdita dell’orientamento, ed una sensazione di malessere generale.
E da qui è nata l’idea di andare a vedere come stanno vivendo e che cosa stanno facendo i compatrioti.
Lo sforzo di lasciare da parte gli stereotipi tanto cari alla propaganda nostrana, mostrando anche gli aspetti meno gradevoli della non sempre così ospitale “locomotiva d’Europa”, e di smorzare l’entusiasmo eccessivo di chi si illude di poter gettare l’ancora in un’altra “terra delle opportunità”, è lodevole.
Purtroppo, però, l’ironia rischia troppo facilmente di trasformare le esperienze individuali dei singoli emigranti, ciascuno con la propria esperienza particolare ed un percorso tutto suo, in una carrellata di macchiette, sminuendo quella rosa molto diversificata di casistiche che le storie offrirebbero.
Prevedibile aspettarsi, per esempio, l’attore e il regista che sognavano una carriera nel cinema e nel teatro, ma che si mantengono a galla vendendo bruschette al mercato turco di Kreuzberg o con qualche altro lavoretto, perché «con quella roba lì non si mangia».
O il meccanico che, dopo tanti anni a Berlino, si sente più tedesco dei berlinesi, e preferisce non avere più niente a che fare con i suoi connazionali.
O il “filosofo” che sintetizza in maniera egregia la convinzione molto diffusa secondo cui «qua è più semplice non fare un cazzo!»
Una collezione di caricature che non racconta niente agli italiani che si chiedono come sia la vita a Berlino, perché il documentario punta maggiormente ad esplorare l’italianità dei berlinesi di adozione. Che non dicono nulla ai tedeschi, perché si fa continuamente leva su una visione assolutamente stereotipata dell’italiano.
Ma, soprattutto, che non dicono niente agli stessi italiani a Berlino, tradendo la loro esperienza fatta di sforzo di integrazione, di senso di appartenenza e -inevitabilmente- di paragone con la vita di un tempo in Italia.
Luca Balduzzi