Cosa si nasconde dietro alla definizione “prestatore di ultima istanza”

di Claudio Romiti

Da molte parti si continua ad invocare, quale panacea per risolvere la crisi dell’euro, di attribuire alla Bce la facoltà di diventare prestatore di ultima istanza, al pari di tutte le banche centrali dei singoli Paesi. Autorevoli e celebrati opinionisti si stracciano le vesti in favore di questa, a loro parere, elementare ricetta per uscire da una situazione che rischia di trascinare nel baratro soprattutto le nazioni più indebitate come la nostra.

In sostanza, non mi stancherò mai di chiarirlo, dietro la definizione di prestatore di ultima istanza in realtà si cela una prerogativa molto semplice ma dagli effetti potenzialmente micidiali: la stampa illimitata di banconote.

E’ infatti questa l’unica possibilità pratica che avrebbe la stessa Banca centrale europea di proteggere la moneta unica ed i Paesi aderenti da quello che gli stessi fautori della succitata proposta definiscono attacco speculativo, mentre altri più prudenti analisti lo ascrivono ad una sostanziale perdita di fiducia dei mercati. Perdita di fiducia che porta sostanzialmente  milioni di operatori finanziari sparsi nel mondo a vendere titoli di Stato di alcuni Paesi europei, provocando un certo deprezzamento della moneta unica.

Ora, venendo alla ragione principale di questa breve riflessione, occorre essere molto netti sugli effetti che si producono sul piano economico-finanziario ogni qual volta una banca centrale “copre” i debiti sovrani di uno Stato acquistando una parte del suo debito attraverso la stampa di nuove banconote.

Intanto, considerando che i soldi, come volgarmente si definiscono, non rappresentano altro che una misura della ricchezza reale e non certamente la ricchezza stessa, è ovvio che se si determina una crescita improvvisa della massa monetaria, quasi automaticamente si produrrà un aumento del costo  dei beni e delle merci e, contemporaneamente, una pari dimuzione del valore effettivo dei risparmi espressi in euro. Sotto questo profilo, dato che  grandi aggregati seguono le stesse regole di una economia di base, basta un piccolo ragionamento per comprendere l’assunto.

A titolo di esempio, immaginiamo che nell’ambito di una piccola comunità di produttori di pomodori ognuno di essi decidesse di consentire ad una locale banca di emettere, al fine di favorire gli scambi commerciali, dei piccoli assegni  corrispondenti ognuno ad un kg dei medesimi ortaggi, in rapporto alla effettiva quantità prodotta.
L’effetto di una rigorosa gestione dei citati assegni consentirebbe di mantenere stabile il prezzo dei pomodori, agevolando lo scambio e la produzione dei medesimi. Tuttavia, se improvvisamente la stessa banca decidesse di raddoppiare il numero dei titoli di credito, il prezzo di acquisto dei pomodori  aumenterebbe allo stesso modo. In una parola si creerebbero i presupposti per la più iniqua e brutale delle tassazioni indirette: l’inflazione. Ovvero quel tremendo male economico-finanziario che ha ci ha funestato per decenni, prima che entrassimo nell’euro.

Ebbene, se non vogliamo riprodurre anche in Europa una condizione di totale instabilità monetaria, dobbiamo convincerci che non ci sono altre strade per sostenere la valuta al di fuori di una rigorosa politica di risanamento dei conti pubblici.

Solo attraverso il raggiungimento di un duraturo pareggio di bilancio, senza soffocare le singole economie, ogni Stato appartenente alla zona può dare un contributo decisivo al mantenimento di uno standard monetario che, non dimentichiamocelo mai, ha consentito fino a ieri di ottenere una notevole diminuzione dei tassi d’interesse sul debito pubblico. L’idea di tornare alla repubblica di Weimar per aggiustare le cose non mi sembra francamente percorribile.

Claudio Romiti