Giulio Di Luzio
Brutti, sporchi e cattivi-L’inganno mediatico sull’immigrazione
Casa editrice Ediesse
L’autore indaga con rigore scientifico e passione civile sul ruolo dei media nella costruzione della figura, generalmente negativa, dell’immigrato, sempre e solo chiamato clandestino, secondo una vulgata giornalistica, che non riconosce loro altro status: migrante, immigrato, irregolare, richiedente asilo, profugo politico, rifugiato.
Giulio di Luzio è nato a Bisceglie (Bari). È stato antimilitarista e obiettore di coscienza nella Caritas Italiana. Dopo anni di precariato giornalistico per Il manifesto, ha collaborato con La Repubblica e Liberazione. Attualmente scrive sul Corriere del Mezzogiorno.
INTERVISTA A GIULIO DI LUZIO, LUNEDI’ 7 NOVEMBRE 2011 (a cura di Luca Balduzzi)
Quante storie differenti vengono nascoste dietro alla parola clandestino? E quante di queste possono effettivamente ricondursi ad una situazione di clandestinità?
Innanzitutto la parola clandestino non ha un’equivalenza lessicale in Europa. Inoltre giuridicamente i clandestini non esistono. Esistono invece i migranti in posizione irregolare. E’ un’espressione che contiene tutto un carico semantico fortemente negativo e criminalizzante. Basti solo pensare al fatto che se un italiano perde il posto di lavoro diviene un disoccupato, se un immigrato cade nella medesima condizione finisce nello status di clandestino. Questa espressione va bandita dal linguaggio giornalistico, sarebbe un atto di autocritica del mondo dell’informazione e al suo modo di affrontare questo delicato segmento della comunicazione, spesso segnato da superficialità e conformismo, senza mai allargare la lente e offrire all’opinione pubblica un’immagine del fenomeno migratorio più obiettiva e meno distorta.
Secondo lo schema proposto dai mezzi di comunicazione di massa, l’immigrazione clandestina coincide sostanzialmente con gli sbarchi degli immigrati nelle isole del sud dell’Italia, ma quali clandestinità, altrettanto se non addirittura più violente, si affiancano a quelle su cui quotidianamente vengono puntati i riflettori?
Gli sbarchi sulle coste adriatiche o a Lampedusa e in generale la rappresentazione mediatica e iconografica dei migranti è sempre affidata a metafore, che alludono all’invasione e alla privazione dei nostri spazi vitali. I luoghi della loro visibilità pubblica, puntualmente sparati dalla carta stampata e dai diversi Tg, sono appunto gli sbarchi di massa ma anche gli sgomberi delle baraccopoli, le identificazioni e i rastrellamenti nei campi rom, le espulsioni e la permanenza dietro le reti dei Cie. La terminologia della cronaca ripete ossessivamente le medesime parole: arrivano, premono alle frontiere, sporcano, invadono…! Insomma una narrazione schiacciata su una visione emergenziale e cronachistica, che ignora storie e percorsi e ragioni delle migrazioni.
Perché (e per chi) è più comodo raggruppare tutte queste storie dietro ad un unico termine, e per di più facendolo caricare una caratterizzazione fortemente?
I giornalisti sono mediamente poco preparati sul tema. Ormai sia la FNSI che l’Ordine del Giornalisti, in collaborazione all’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, ha istituito precise tappe formative nei curricoli delle scuole di giornalismo in materia di storie delle migrazioni. Inoltre i tanti stereotipi sui clandestini hanno un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica e vengono usati in chiave ideologica dal mondo della politica soprattutto alla vigilia di competizioni elettorali. Lo stesso schieramento progressista ha dimostrato di privilegiare una visione securitaria del fenomeno, rincorrendo la controparte sul terreno delle politiche proibizioniste. Dunque la scelta di giornali e scalette di Tg, da cui leggiamo e ascoltiamo l’arrivo dei migranti sulle nostre coste con toni spettacolaristici e di forte drammatizzazione, non fa che amplificare l’ordine di scuderia, che viene dall’agenda politica. Senza parlare di testate dichiaratamente razziste, che usano l’informazione per cavalcare gli istinti più rozzi e xenofobi dell’elettorato.
In base a quali motivazioni l’emigrazione/immigrazione dei giorni d’oggi dovrebbe apparire agli occhi degli italiani più brutta, sporca e cattiva di quella di cui gli italiani stessi sono stati protagonisti nel corso dell’Ottocento e del Novecento?
I migranti sono i brutti, sporchi e cattivi del nostro tempo. Ai primi del Novecento eravamo noi a vestire quei panni, trattenuti in quarantena a Ellis Island, all’imbocco del porto di New York, identificati, schedati, trattati come trogloditi e sottosviluppati prima di approdare sul suolo americano. Siamo stati un popolo migrante, abbiamo lasciato una scia di dolore e di drammi esistenziali in ogni angolo del mondo, storie di abbandoni e distacchi familiari, storie di migrazioni, di cui purtroppo non c’è traccia nella livida informazione, che racconta chi oggi chiede un posto alla nostra tavola. Ma anche le migrazioni interne degli anni Cinquanta sono capaci di descrivere storie di discriminazione ai danni dei tanti operai e contadini del sud emigrati nelle fabbriche lombarde o torinesi. Ma c’è una cesura storica sul nostro recente passato di popolo migrante!
In una Europa che in questi ultimi anni si è trovata a fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione in maniera particolarmente pressante, questa sua caratterizzazione negativa è comune ad altri paesi?
L’immigrazione in questi anni non è stata pressante. E’ la modalità narrativa dei media, che l’ha rappresentata con canovacci cronachistici improntati all’emergenza e alla retorica dell’invasione. Naturalmente se i diversi Tg e la maggior parte delle testate di carta stampata sfornano ossessivamente copioni di cronaca sui clandestini, che occupano e invadono o sono fermati, espulsi, cacciati, sgomberati, schedati con un lessico che non lascia spazio ad altra interpretazione, il minimo che ci si possa aspettare da un’opinione pubblica a digiuno di esperienze dirette coi migranti, è l’idea distorta che essi, per esempio, siano troppi. Solo per fare un esempio l’Italia ospita un numero di rifugiati dieci volte inferiore alla Germania. I fatti di Lampedusa della primavera scorsa sono esemplari: si è voluto raccontare il copione della paura, sulla base di una invasione costruita ad hoc in un territorio gravato da 5mila migranti a fronte dello stesso numero di residenti. Ma non pare una scelta strumentale quella di accalcare come sardine profughi e migranti con bisogni umanitari e offrire all’opinione pubblica uno spettacolo indecoroso in un Paese di 60 milioni di abitanti e tra i più industrializzati del pianeta?
Il termine immigrazione clandestinità -cito dalla postfazione- non trova alcun corrispettivo nel glossario internazionale… inesistenza del fenomeno o piuttosto una maggiore sensibilità da parte dell’opinione pubblica?
Esiste il tema delle migrazioni come fenomeno planetario e dell’impossibilità -e dell’inefficacia- di qualsiasi politica proibizionista, che pretenda di erigere muri e palizzate e fortezze apparentemente inespugnabili. Il nodo sta nella scelta di efficaci politiche sociali di integrazione, a cui il nostro Paese destina un decimo delle risorse affidate alla repressione delle migrazioni e alla detenzione illegale dei migranti giunti in Italia.