di Marco Mancini
30 GIU -Proprio nel giorno in cui il Senato francese ha approvato il progetto di legge sul matrimonio omosessuale, in Italia il presidente della Corte Costituzionale, tale Franco Gallo, ha tenuto la sua consueta relazione. E ne ha approfittato per rimbrottare il legislatore, cioè il Parlamento, colpevole di non aver dato seguito ad alcune sollecitazioni contenute nelle pronunce della Corte del 2012.
In particolare, Gallo si è soffermato su due questioni. La prima riguarda le unioni omosessuali. E’ vero – afferma il presidente della Consulta – che la limitazione dell’istituto matrimoniale alle coppie eterosessuali non è incostituzionale, ma è anche vero che la Corte ha chiaramente affermato “che due persone dello stesso sesso hanno comunque il diritto fondamentale di ottenere riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, della loro stabile unione”. La seconda concerne invece il tema, di fondamentale rilevanza nell’Italia della disoccupazione giovanile al 40%, del cognome: l’attribuzione al figlio del cognome paterno costituisce, ad avviso di Gallo, “il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” e va dunque modificata quanto prima.
Ora, sarebbe interessante chiedere: eccellentissimo prof. Gallo, su che fondamento afferma che gli omosessuali hanno il “diritto fondamentale” di vedere riconosciuta giuridicamente la propria unione? Qual è la sua concezione di ciò che è “diritto”? Io, che credo al diritto naturale, ritengo che, se tutti utilizzassimo rettamente la ragione, sui fondamenti dell’umano – cioè, per intenderci, su cosa sia la famiglia – dovrebbe esistere un unanime consenso proprio in senso opposto alla soluzione proposta dalla Corte e da lei rilanciata. Se, invece, lei ritiene – come Bobbio – che i diritti non abbiano un fondamento naturale ma siano l’esito del conflitto sociale, che non si diano una volta per tutte ma si affermino gradualmente in corrispondenza con l’evoluzione storica, allora deve riconoscere che, in ogni caso, tali diritti dipendono dalla concezione politica e antropologica che ognuno di noi fa propria. E con quale autorità, dunque, un organo come la Corte Costituzionale entra a gamba tesa in una questione così controversa, trasformando un confronto di ordine culturale e politico in questione di “diritto fondamentale”?
Ma non si dica che la Corte fa politica, ché Gallo alza la cresta e fa pure l’incazzato. Essa, infatti, guarda “con sereno distacco” alle accuse di politicizzazione: certamente esiste un certo grado di “flessibilità” nell’interpretazione del testo costituzionale, ma tale “discrezionalità interpretativa” non si risolve mai “in una scelta di opportunità politica”: si tratta semplicemente di ampliare la “tutela dei valori consacrati nella costituzione”. Insomma, Gallo e i suoi compari fanno dire alla Costituzione ciò che vogliono che dica, però non fanno politica. E’ la foglia di fico dietro la quale si nasconde la peggiore tecnocrazia: non esiste scelta tra più opzioni – che è l’essenza della politica –, si fa così perché bisogna e non c’è alternativa. Ci pisciano in testa e poi ci dicono che piove, potrebbe dire qualcuno. Non vi ricorda certi discorsi di Monti, o le classiche argomentazioni dell’euroburocrazia? E infatti Gallo ha un curriculum tecnicissimo: professore di diritto tributario, fu ministro delle Finanze nel governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi, che più tardi, da presidente della Repubblica, decise di piazzarlo alla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale, si legge all’art. 134 della “Costituzione più bella del mondo”, giudica “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Insomma, la Corte dovrebbe limitarsi ad accertare se una legge che è portata alla sua attenzione sia conforme o meno alla Carta costituzionale e non dettare l’agenda politica al Parlamento, suggerendo su cosa e in che termini legiferare. E non serve che qualche giurista venga a tediarmi, informandomi sulle nuove frontiere della giustizia costituzionale: conosco benissimo lo stato dell’arte. Semplicemente, come il Sonnino del 1897 (o come il giudice Scalia della Corte Suprema USA), mi chiedo se non sia il caso di “tornare allo Statuto”, cioè di prendere in maggiore considerazione la lettera della Costituzione, reagendo a invasioni di campo di organi che, istituiti per garantire la tutela dei veri “diritti fondamentali”, hanno finito per allargare a dismisura il raggio della propria azione, fino a interferire nell’ambito dell’indirizzo politico.
Forse aveva ragione Togliatti, quando in Costituente metteva in guardia contro un tale istituto: “la Corte Costituzionale – affermava – è una bizzarria, un organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema della democrazia, per esserne i giudici”. Forse bisognerebbe seguire l’esempio di Orban e rimettere al suo posto chi pretende di sequestrare la nostra sovranità. Ma attendersi una cosa del genere, in quest’Italia, è del tutto irrealistico. Seguiamo allora il solenne monito di Gallo: bisogna cambiare la legge elettorale, per poter tornare a scegliere direttamente i nostri parlamentari. Tanto, poi, su cosa legiferare lo decide lui.
Ma la nostra costituzione,è l’unica che prevede la cotre costituzionzle?