Riforma elettorale. Meglio il proporzionale

Gentilissimo Direttore,

urnariemerge un giorno sì e l’altro pure il problema della riforma elettorale. Ricordo una conversazione con un signore statunitense nel corso della quale si era sfiorata la tematica dei sistemi elettorali. A suo dire, negli Stati Uniti la gente si interessa poco di politica e guarda avanti con il paraocchi, pensando agli affari propri, ovvero all’esclusivo e circoscritto interesse personale. A votare vanno in pochi. Pochi infatti ritengono che il proprio voto possa cambiare alcunché.

I giochi sono peraltro in gran parte già fatti e tutto è sotto lo stretto controllo dei gruppi di potere, che sono anche gruppi di pressione politica (è questo esattamente il significato del temine “lobby”). Il meccanismo costringe l’elettore a fissare una sola priorità (per esempio, la riduzione delle tasse), per poi decidere quali dei due candidati risponda meglio a quella stessa priorità. Tutto il resto deve essere preso preconfezionato, cioè a scatola chiusa, piaccia o no.

Un parallelismo gastronomico può essere questo: il ristorante offre solo due menù fissi. In teoria all’avventore potrebbe piacere il primo piatto del menù 1 abbinato con il secondo piatto del menù 2, ma questa scelta non gli è consentita. Allora deve decidere se ritiene più importante scegliere il primo piatto (risotto anziché tortellini), fissando su questo la priorità, o invece scegliere il secondo piatto (scampi anziché scaloppine). I menù 1 e 2 sono indivisibili (devo dire di avere in passato sperimentato l’indivisibilità dei menù in una mensa universitaria di Francoforte e di aver trovato la cosa assai poco indovinata). Se il menù “prendere o lasciare” non è gradito, non resta che rinunciare al ristorante e starsene a casa. E’ proprio quello che fanno gli americani, e in effetti negli Stati Uniti il partito di maggioranza assoluta è quello dei non votanti.

Il motivo è anche che le soluzioni proposte dai due partiti che si contendono l’elettorato non differiscono più di tanto. La stessa via potrebbe essere imboccata in Italia, dove una riforma in senso maggioritario porterebbe a una finta contrapposizione tra due schieramenti che alla fin fine propongono le stesse identiche ricette e non lasciano alcuna scappatoia al povero elettore. Ciò deriva dal fatto che la vittoria dell’uno o dell’altro dipende dal voto degli indecisi, quelli cioè che stanno nel mezzo. A forza di inseguire questo elettorato, i due partiti o schieramenti finiscono per assomigliarsi sempre più tra loro, al punto che, alla lunga, il sistema, piuttosto che bipartitico, o bipolare, può essere meglio definito come pseudobipartitico con tendenza irreversibile verso il monopartitismo mascherato.

I menù proposti finiscono per essere gli stessi, tutt’al più con una leggera differenza nel condimento. Personalmente preferisco ristoranti con menù più differenziati, dove poter scegliere più liberamente primo, secondo e frutta. Per essere più precisi, da italiano preferisco un sistema con cinque o sei partiti, come quello della tanto vituperata “prima repubblica”, dove era possibile un voto di preferenza anche sul candidato. Predicando seduti sulle macerie di Tangentopoli, a molti fu facile far passare il concetto che la colpa era del sistema elettorale, scegliendo quest’ultimo come capro espiatorio. Con ogni evidenza è stato invece clamorosamente fallito il bersaglio, se è vero che la corruzione e lo sfascio si vedono oggi più di ieri e se è vero anche che il meccanismo di tipo proporzionale non sortisce, come è stato spesso contrabbandato, l’effetto deleterio di moltiplicazione dei partiti. Al contrario, nella “prima repubblica” i partiti erano, in sostanza, cinque o sei, pur in assenza di qualsiasi soglia di sbarramento. Come si spiega?

La verità, che pochi sono disposti ad ammettere, è che il sistema elettorale della “prima repubblica” era perfetto (del resto, era più o meno lo stesso che si usa nelle elezioni per il parlamento europeo). L’instabilità dei governi di quel tempo non era frutto del sistema elettorale, ma della mancanza di precise regole e di specifici vincoli all’atto della costituzione dei governi, che ne avrebbero stabilizzato la durata all’intera legislatura. Tali regole non sono mai state, finora, neppure ipotizzate e men che meno discusse. Credo che la costituzione di un governo che nasca sulla base di un programma che corrisponda a un minimo comune denominatore tra i partiti che lo sostengono possa partorire leggi e riforme che hanno qualche garanzia di durare nel tempo, mentre l’alternanza tra due schieramenti che si autodefiniscano come opposti in tutto finisca per produrre riforme destinate a essere rimosse ad ogni piè sospinto, ovvero ad ogni cambio di schieramento al governo. Si tratta di una sorta di ping-pong assai poco produttivo, come abbiamo avuto modo di constatare nell’ultimo ventennio, durante il quale il Paese ha camminato facendo un passo avanti e due indietro.

Credo che i risultati si vedano benissimo. Un Governo che nasca in un Parlamento pluripartitico senza vincoli prefissati a priori, eletto con criterio proporzionale e che corrisponda a una maggioranza reale nel Paese (con le leggi elettorali della “seconda repubblica” tutti i governi succedutisi, di un segno o del segno opposto, hanno sempre rappresentato una minoranza del Paese reale) è a mio avviso di gran lunga preferibile a quei Governi “del dire e del non fare” che abbiamo visto all’opera con il sistema bipolare per un periodo durato fin troppo a lungo, in cui la dignità è finita sotto la suola delle scarpe, si sono solo sentiti slogan e insulti, si sono delineate solo sterili contrapposizioni di bandiera e si è tirato a campare, o mirato a galleggiare, senza la volontà di affrontare i veri problemi del Paese, troppo impegnati in interminabili schermaglie tra opposti schieramenti (perché in questo nei fatti si è tradotto il tanto decantato e celebrato “bipolarismo”), per lasciare alla fine il Paese Italia in braghe di tela.
Con i più cordiali saluti.

Omar Valentini