PER UN MANIFESTO LIB-LAB. 1. Alcune riflessioni sul passato e sul presente. 9 Proprio in questi giorni un chiarimento sta arrivando dalla sinistra, pur nella molteplicità delle forze che la compongono.
Come è noto lo schieramento di sinistra è assai composito, come testimoniano le stesse personalità che si contendono la leadership perché Pierluigi Bersani impersona la sinistra tradizionale, Matteo Renzi una sorta di nuovismo centrista e Nichi Vendola la sinistra radicale. Oggi questa dialettica ha prodotto un primo risultato: l’alleanza organica tra Pierluigi Bersani e Nichi Vendola. Avendo giocato tutte le sue carte sulla formazione della coalizione PD-Sel, di fatto Pierluigi Bersani si è messo nelle mani di Nichi Vendola. E’ possibile che la sinistra vinca le elezioni sul piano numerico, sulla base di una piattaforma assai spostata a sinistra del tutto in contraddizione con l’attuale sostegno al governo Monti. Tutto ciò provocherebbe delle incognite di non poco conto visto che la situazione economica internazionale rimane gravissima e gli equilibri tuttora appesi ad un filo perché, come vedremo successivamente, le positive iniziative di Mario Draghi non hanno ancora il retroterra costituito da una BCE che abbia, al pari della Federal Reserve americana, l’obiettivo di garantire non solo la stabilità monetaria, ma anche l’occupazione e, di conseguenza, la crescita.
Di fronte a ciò è auspicabile che si formi la grande aggregazione di centro-destra, di tutti i moderati e riformisti, auspicata da Silvio Berlusconi e da Angelino Alfano, in alternativa a quella messa in campo dal PD e dalla SEL. In questo quadro il PDL deve fare la sua parte rinnovandosi, anche al punto di cambiare nome e simbolo, ma non autodistruggendosi in seguito ad una sorta di cupio dissolvi. A nostro avviso il PDL va rinnovato e rilanciato, non smontato o rottamato, come suol dirsi con un’espressione repellente che non appartiene al nostro lessico. Le grandi
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difficoltà politiche, sociali, organizzative, elettorali e anche etiche vanno affrontate con il rilancio di una forte leadership politica, e con un partito fortemente radicato nel territorio e nel rapporto con vari settori della società, quale che sia la legge elettorale e non con gli “spacchettamenti”, le impossibili separazioni consensuali, le fughe all’indietro, l’inseguimento dell’antipolitica, tantomeno poi con le crisi di nervi, i reciproci attacchi personali e, in questo quadro, anche le ipotesi di rottamazione individuali avanzate sulla base delle qualifiche professionali, dell’età, del sesso, di storie personali perversamente ricostruite o, peggio ancora, dell’etnia politica originaria, da Forza Italia o da AN. Se ciò non bastasse, talora presi da una sorta di masochismo politico spesso dimentichiamo che, diversamente da quello che finora è avvenuto nel Partito Democratico, per merito di Silvio Berlusconi, il PDL, come partito e come rappresentanza di governo, ha rinnovato largamente i suoi gruppi dirigenti mettendo in campo una ottima e rinnovata classe dirigente: nel Governo Berlusconi molti ministri erano giovanissimi rispetto ai soliti personaggi che facevano parte dell’ultimo governo Prodi. Questo processo va proseguito anche a livello regionale, ma non va dimenticato ciò che è stato fatto ai congressi provinciali e comunali di qualche tempo fa, dove sono stati eletti molti nuovi dirigenti. Contro il Governo Berlusconi, contro il PDL hanno giocato la crisi finanziaria internazionale, forze internazionali e interessi molto forti, da un certo momento in poi anche una sostanziale divisione nel Governo dove Giulio Tremonti, che pure aveva un’enorme potere, ha puntato a essere lui a svolgere il ruolo oggi svolto da Mario Monti, il dissenso della Lega su questioni programmatiche essenziali, il rinnovato e permanente attacco contro Silvio Berlusconi. Certamente la durezza dell’attacco ha anche messo in evidenza
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tutti i punti deboli del PdL, dall’esistenza di una permanente litigiosità locale, a episodi anche gravissimi di malversazione come nel caso Fiorito (che per le cronache giovanilistiche ha solo una quarantina di anni), da eccessi di protagonismo e di conflittualità per esigenze mediatiche. Tutto ciò e altro ancora è certamente vero, ma non è certo una buona ragione per smontare o spacchettare il PDL, magari ritornando a Forza Italia e ad AN, o agitando il sogno di tornare al 1994, addirittura alla ricerca di formare nuove forze politiche concorrenziali al grillismo da destra. Dal 1994 ad oggi sono passati 18 anni, tutto il mondo è cambiato, forse in peggio, e non siamo come al cinema dove si può mettere in campo il flashback o far scorrere a ritroso la moviola. Purtroppo paghiamo il ritardo di non aver riaffermato, ai fini delle elezioni, né la leadership di Silvio Berlusconi, né di aver messo in campo Angelino Alfano con le primarie. Adesso, però, proprio Silvio Berlusconi ed Angelino Alfano, a nome del PDL hanno fatto una proposta politica forte, per l’aggregazione di tutti i moderati, allo scopo di impedire alla sinistra di conquistare il potere, e di governare il paese con una linea politica sostanzialmente conflittuale con l’esperienza di Mario Monti e le indicazioni della UE.
Adesso dobbiamo attendere che la proposta avanzata ai centristi abbia delle risposte politiche che fino ad ora non sono venute, mettendo in evidenza l’imbarazzo che la nostra proposta ha determinato nelle altre forze moderate. In ogni caso, a nostro avviso, in tempi di antipolitica non bisogna adeguarsi ad essa ed inseguirla sul suo stesso terreno, sia perché non la si raggiungerà mai, sia perché all’antipolitica non si risponde apprestando un surrogato che poi verrà giustamente rifiutato e disprezzato da tutti, sia da coloro che prediligono la politica sia dai fanatici dell’antipolitica. Bisogna invece rimettere
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in campo una proposta politica fondata su una leadership e su gruppi dirigenti, autorevoli per storia ed esperienza ma aperti al ricambio, che siano eletti dalla base; su gruppi dirigenti che coinvolgano più generazioni e più saperi sulla base del merito, della serietà, delle capacità, del consenso, della competenza e del rapporto col territorio: è essenziale che ad ogni livello si passi da un regime fondato sulle cooptazioni e sulle nomine a catena, ad un altro fondato sul confronto e sulla realtà degli iscritti e degli elettori. È anche ipotizzabile che il partito rinnovato venga riorganizzato sulla base di tre centri di direzione politico-organizzativa al centro, al nord e al sud. D’altra parte un partito si fonda non solo sul suo modo di essere, ma su scelte politiche e programmatiche forti. Allora, come abbiamo visto, la prima scelta è quella dell’aggregazione di tutta l’area moderata: dobbiamo fare di tutto perché ciò avvenga. Nel caso deprecabile che ciò non riuscisse, per responsabilità non nostra, allora bisognerebbe mettere nel conto che a fronte della coalizione già formata delle varie forze di sinistra si deve consolidare comunque un forte e serio partito dell’opposizione, il partito del centro–destra, quale che sia il suo nome e il suo simbolo, che marchi le ragioni dell’alternativa programmatica, politica, di valori, alla sinistra e ad un certo establishment amministrativo del tutto conservatore, nella convinzione poi, che non è affatto detto che questa opposizione sarà inevitabilmente di lunghissima durata, perché le contraddizioni intrinseche allo schieramento di centro-sinistra sono profondissime e già visibili oggi ad occhio nudo e quindi esse possono anche esplodere in tempi imprevedibili. Detto tutto ciò sono fondamentali l’analisi e le terapie per affrontare la crisi finanziaria internazionale e i serissimi problemi che ha l’Europa. Per questo il nostro manifesto non può esimersi dall’affrontare contenuti di analisi e
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programmatici, in modo altrettanto impegnato. Infatti è indispensabile misurarsi sia con i nodi politici sia con le questioni programmatiche che coinvolgono gli interessi e le prospettive di vita e di lavoro di milioni di persone.
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2. LA NOSTRA ANALISI SUL QUADRO ECONOMICO INTERNAZIONALE, SULL’EUROPA, SULL’ITALIA
2. 1 Il quadro internazionale: geopolitica ed economia
Ad un contesto economico-finanziario di straordinaria difficoltà si accompagna un quadro internazionale tutt’altro che stabilizzato sul piano monetario, finanziario, economico e sociale.
Dal crollo del comunismo in poi ci sono state due previsioni di stabilizzazione entrambe fallite. La prima è quella che per comodità fa riferimento al libro di Francis Fukuyama, che prevedeva una sorta di “fine della politica”, dopo il crollo del comunismo e quindi il decollo di un’era dominata da un liberismo ben temperato. Purtroppo, dopo la crisi del compromesso socialdemocratico, proprio nel cuore dell’Europa, il liberismo estremo della Thatcher e di Reagan, che pure ha cambiato i paradigmi tradizionali dell’economia, ha prodotto una fase di sviluppo impetuoso che poi, però, ha dato via libera ad una finanziarizzazione selvaggia che è all’origine dei nostri guai attuali.
Dopo il 1989 il mondo è stato sconvolto dal terrorismo islamico espresso da un fondamentalismo che comunque, anche nelle sue espressioni pacifiche, ha una visione integralista dello Stato e della società. In ogni caso il mondo occidentale, gli USA in primo luogo, con tutte le sue componenti e i suoi apparati, è stato preso alla sprovvista dall’11 settembre del 2001. Può dirsi che George Bush e Bill Clinton hanno sviluppato una lotta organica al terrorismo in una successione di scelte felici e di errori rilevanti. E’ stata una scelta giusta quella di procedere ad una lotta organica e senza quartiere al terrorismo, come è stata una scelta giusta l’intervento nell’Afghanistan. A nostro avviso invece si è rivelato
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una scelta assai discutibile l’intervento in Iraq (anche se è il solo che sia stato in grado di introdurre dei cambiamenti ancora parziali ma effettivi in quel Paese). C’è stata un’interpretazione non solo ottimistica, ma proprio fuorviante, sulla cosiddetta primavera araba, che si è rivelata essere la solita allucinazione di quanti sono sempre pronti ad attribuire ad una manifestazione di piazza un significato palingenetico.
Purtroppo in vari paesi del Mediterraneo varie tendenze fondamentaliste stanno chiaramente prevalendo. In questo quadro, poi, l’interventismo militare a senso unico si sta rivelando un disvalore anche dal punto di vista etico. Sulla Libia e sulla Siria la Nato e l’ONU si sono mossi adottando due pesi e due misure, con esiti in entrambi i casi tutt’altro che positivi. Il durissimo intervento militare in Libia è servito ad esaltare la grandeur di Nicolas Sarkozy, ma non ha certo prodotto libertà, stabilità, democrazia. Anzi in Libia è in atto una permanente guerra per bande tribali che rischia di produrre una situazione simile a quella somala. Inoltre, rispetto ad una serie di nodi, in primo luogo quello iraniano, si rischia di avere una linea incerta e contraddittoria. In un momento così serio e grave, gli USA devono essere maggiormente vicini ad Israele.
Nel contempo a livello mondiale c’è una iniziativa cinese a largo raggio, dall’Estremo Oriente all’Africa, un’iniziativa sviluppata da un singolare paese che combina insieme uno stato rigorosamente comunista, un’economia ultracapitalista, il controllo di una parte cospicua del debito pubblico americano, la possibilità di praticare una concorrenza drogata e falsata all’industria occidentale.
In sostanza ci troviamo davanti ad una situazione mondiale tutt’altro che stabilizzata, nella quale la crisi finanziaria si intreccia con un quadro internazionale tutt’altro che solido, nel quale l’egemonia americana persiste ma è resa sempre più debole da serie difficoltà economiche.
Di contro ancora, l’antiberlusconismo, malattia ormai cronica del centro sinistra, ha portato a sottovalutare, da noi, il contributo, anche personale di Silvio Berlusconi, nel riconsegnare alla Russia il ruolo che compete ad una grande potenza in cammino, pur con tante contraddizioni, verso un
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sistema democratico compiuto e in grado di ottenere, grazie alle sue risorse energetiche e di materie prime, una influenza ancor più determinante sullo scenario internazionale di quella che era riconosciuta alla politica che viaggiava sui carri dell’Armata rossa e sulla competizione nucleare.
Dobbiamo avere la consapevolezza di vivere una fase fuori dall’ordinario, caratterizzata da una profonda crisi finanziaria del capitalismo mondiale nelle sue punte storicamente più avanzate, quella statunitense e quella europea.
Questa crisi comporta una forte conflittualità fra interessi contrapposti di aree economiche, di nazioni, di gruppi finanziari, di forze sociali e politiche.
Prima i contrasti di interesse di questo tipo portavano a guerre militari. Adesso essi provocano guerre finanziarie e monetarie. Non c’è nulla di oggettivo in ciò che è avvenuto. Il sistema finanziario bancario americano ha distribuito titoli tossici in tutto il mondo. Sull’Italia, come sugli altri paesi dell’Europa, è piombata dal 2008 una crisi del capitalismo mondiale, sotto forma di una crisi finanziaria che dalle banche – prima quelle statunitensi, poi quelle europee (quelle tedesche in particolare) – passando attraverso la messa in questione dei titoli di Stato, si è estesa al settore produttivo, ha investito le imprese e i lavoratori, determinando una forte recessione.
La “guerra finanziaria” si è aperta anche perché la globalizzazione ha avuto un andamento assai diverso da quello previsto sia dall’analisi liberista sia da quella neo-marxista. Entrambe queste analisi ritenevano – una per applaudire, l’altra per condannare – che la globalizzazione si sarebbe risolta nell’ennesimo trionfo dell’occidente sul Terzo Mondo. A conferma dell’assoluta imprevedibilità della storia, le cose sono andate in modo assai diverso: l’atipico meccanismo concorrenziale messo in atto dalla globalizzazione (in primo luogo attraverso il bassissimo costo del lavoro in alcuni paesi), insieme ad altri fattori, ha fatto sì che le gerarchie economiche sul terreno dell’andamento del PIL, della crescita, della stessa
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concorrenza per ciò che riguarda alcuni settori industriali – quelli più elementari sul piano tecnologico – si sono quasi rovesciate: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, i cosiddetti Brics, hanno avuto finora, pur fra mille contraddizioni, un notevole sviluppo, non solo economico ma anche sociale; mentre invece a essere nei guai, e in guai serissimi, sono proprio gli USA e l’Europa, soprattutto nell’area dell’euro.
Alla radice di questi guai sono molti elementi. Tra di essi anche la battuta d’arresto subita, in una significativa successione temporale, dalle due grandi linee di politica economica che hanno caratterizzato il XX secolo: il compromesso socialdemocratico, fondato sul Welfare e sul Keynesismo, e il liberismo reaganiano e thatcheriano. Il compromesso socialdemocratico, nelle sue varie versioni, dagli anni trenta agli anni ‘80, ha dato positivi contributi allo sviluppo economico e sociale, determinando anche una condizione di relativa equità, con un esteso ceto medio e con un lavoro dipendente dotato di un forte potere contrattuale, entrambi garantiti dal welfare e gratificati da una crescita economica quasi ininterrotta. Poi, in molte delle sue esperienze, esso è andato incontro a una forte involuzione che ha determinato eccessi di dirigismo, di statalismo, di lacci e lacciuoli alla produzione, di crescente spesa pubblica assistenziale, clientelare e improduttiva, di un eccesso di potere sindacale: tutti questi elementi negativi hanno finito con l’inceppare lo sviluppo. In diversi paesi la socialdemocrazia, o la sua versione “democratica” (vedi gli USA), è stata “bucata” e sconfitta dal “liberismo estremo”, rappresentato dal thatcherismo e dal reaganismo – che hanno avuto in Tony Blair una più morbida versione laburista – i quali hanno dato spazio agli “spiriti animali” del capitalismo, di una imprenditorialità che voleva liberarsi da condizionamenti politici, economici e sindacali per essere competitiva nella concorrenza internazionale.
È accaduto, però, che su questa libertà imprenditoriale successivamente si è innestata l’egemonia dell’economia finanziaria che, in primo luogo negli USA, ha prodotto danni significativi, a testimonianza che il liberismo senza regole finisce col provocare crisi economiche e tensioni sociali. Le banche
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statunitensi e inglesi sono state fra le principali responsabili: esse hanno distribuito titoli tossici in tutto il mondo, in primo luogo a molte banche di altri paesi europei (meno delle altre perciò che riguarda le banche italiane che hanno problemi di altro tipo, riguardanti in primo luogo la gestione).
Le banche tedesche non sono state da meno. Se andiamo ad analizzare cronologicamente l’inizio della crisi, vediamo come, per quanto riguarda il nostro paese, la corsa a rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato sia cominciata a giugno 2011, ma in realtà la tempesta perfetta si stava preparando già qualche mese prima.
In effetti, tra febbraio e maggio 2011, c’è stata calma piatta sui mercati, con rendimenti dei titoli decennali tedeschi e italiani, con 150 punti base circa di differenza (spread) tra gli uni e gli altri. Calma piatta, dunque, con una sola avvertenza: i rendimenti dei titoli del debito pubblico della Germania erano su una curva ascendente, in ragione non tanto dei problemi della finanza pubblica, quanto di quelli della finanza privata: le banche, oggettivamente a rischio.
Le banche tedesche, infatti, avevano, e hanno tuttora, al loro interno rilevanti componenti di debolezza che derivano dai loro comportamenti spericolati (vedi il caso dei titoli greci) e dai loro investimenti sbagliati (in titoli tossici), di cui mai si è conosciuta la reale consistenza. È così che il combinato disposto dell’aumento dei rendimenti dei titoli pubblici tedeschi, del dubbio valore dei titoli tossici e delle perdite sui titoli greci nei portafogli delle banche da una parte e le regole stringenti, proprio sul settore bancario, di EBA e Basilea 3 dall’altra hanno generato una situazione di forte tensione nel sistema finanziario privato tedesco.
La reazione, alla luce di quello che è successo, è stata geniale, cinica e irresponsabile al tempo stesso: la finanza privata tedesca ha trasferito la crisi potenziale del suo sistema bancario sui paesi più deboli dell’eurozona, vendendo e dando indicazioni generalizzate di vendere i titoli del debito sovrano, prevalentemente greci e italiani, sul mercato secondario, al fine di aumentarne i rendimenti sul mercato primario.
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Molto probabilmente, la strategia tedesca, più o meno concertata, mirava unicamente a un riequilibrio dei rendimenti, ma, dati i tempi, l’operazione è finita per sfuggire di mano, provocando la tempesta perfetta.
A livello internazionale le banche, però, sono anche entrate in contraddizione fra di loro. Quelle più forti sono collegate con le società di rating e, attraverso gli spread, cercano di gestire l’Europa, di fare e disfare i governi, come è avvenuto in Grecia, in Spagna, in Portogallo e fra novembre e dicembre 2011 anche in Italia.
E’ proprio un segno dei tempi che la sinistra italiana, almeno fino a quando ciò è servito per combattere Silvio Berlusconi, ha avuto come punti di riferimento sia Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, sia i “mitici mercati”, sia gli “indiscutibili spread”, le nuove divinità del nostro tempo. Però adesso che è cambiato il Governo, la sinistra sta cambiando spalla al suo fucile e una parte di essa riscopre la socialdemocrazia europea.
Una prima demistificazione va fatta del termine i “mercati” che oramai viene assunta in termini del tutto acritici, senza per questo dimenticare i grandi vantaggi e le opportunità che possono derivare dalla globalizzazione anche per un’economia come quella italiana che ha nei settori esportatori i comparti d’avanguardia della sua struttura produttiva. In un articolo di Alessandro Politi e di Claudia Bettiol su Limes è scritto: “I mercati sono una parola che non ha veramente senso perché dopo 30 anni di fusioni e acquisizioni, l’Ocse ha potuto osservare che ci sono 10 attori che controllano oltre il 90% del mercato dei derivati (Credit default swaps, Collateral debt obligation, Exchange rate swaps). Queste sono le entità che fanno il cosiddetto mercato e spezzano le reputazioni finanziarie senza troppo curarsi dei fondamentali, avvalendosi anche di sofisticate tecniche di scambio come il cosiddetto high frequency fading (cambio automatizzato ad alta velocità). Se ciò non bastasse, le prestazioni dei vari attori privati e pubblici in questo sistema vengono valutate dalle agenzie di rating, di cui tre internazionali e una nazionale, ove il conflitto di interessi è evidente e i giudizi che esse esprimono vanno a condizionare le decisioni di investitori in tutto il mondo”.
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2.2 Che cosa è successo in Europa
Ottobre 2009: elezioni in Grecia, si scopre un buco di bilancio nei conti pubblici di Atene. La speculazione internazionale inizia a interessarsi della Grecia e, soprattutto, della reattività dell’area euro alle crisi delle finanze pubbliche di singoli Stati nazionali. Reattività insufficiente che si caratterizza come il vero punto debole dell’intero sistema euro: da quell’ottobre fatidico l’Unione Europea inizia a rispondere troppo poco e troppo tardi alle ondate speculative e le istituzioni comunitarie si rivelano non sufficientemente forti, mature, reattive da resistere e rispondere agli attacchi speculativi sulla moneta unica.
A 3 anni di distanza da quel fatidico ottobre e dopo più di un anno di passione, da luglio 2011, caratterizzato da spread tra titoli del debito pubblico dei Paesi dell’area euro rispetto ai Bund troppo elevati, a livelli febbrili (in Italia in alcuni periodi oltre i 500 punti base), da vertici europei inconcludenti e da misure di austerità e rigore imposte ai Paesi sotto attacco della speculazione, si è sfiorato più volte il collasso dell’intero sistema euro. Con la conseguente stagnazione e recessione, che finiscono per ridurre drasticamente l’efficacia della politica monetaria che il presidente della BCE, Mario Draghi, ha cercato di far convergere progressivamente verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. E con le conseguenti tensioni democratiche, cambi di governo e inevitabili derive populistiche.
2.3 Perché è successo
Alla base della crisi ci sono stati errori di costruzione nell’architettura della moneta unica.
Da tali imperfezioni sono derivati comportamenti rigidi, intransigenti, “egoistici” da parte di alcuni paesi – come la Germania, che pur hanno beneficiato, negli ultimi 10 anni, di un tasso di cambio di fatto favorevole,
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che ha rilanciato il commercio con gli altri Stati e le esportazioni, nella totale assenza di politiche redistributive – e comportamenti “lassisti” da parte di altri paesi – come Portogallo, Irlanda, Italia, (Grecia) e Spagna, che non hanno utilizzato i vantaggi derivanti da tassi di interesse e da tassi di inflazione più bassi rispetto al proprio merito di credito per consolidare i loro conti e avviare le riforme strutturali necessarie.
Nel gioco al massacro poco hanno influito i fondamentali economici degli Stati presi di mira (tranne il caso greco, che è un unicum) mentre hanno avuto un grande ruolo i sentiment cosiddetti “auto-avveranti” dei mercati, che hanno giocato contro l’architettura imperfetta dell’euro.
Risultato: spread alle stelle, in gran parte immeritati, per i Paesi sotto attacco speculativo e conseguente loro impossibilità a reagire, nonostante le cure recessive che si sono “autoimpartite”.
Considerate tutte queste premesse, la via d’uscita è da individuare nel salto di qualità indicato nel documento “Verso una vera unione economica e monetaria”, elaborato dai presidenti di Commissione europea, Consiglio europeo, Eurogruppo e BCE, che prevede unione bancaria, economica, politica e fiscale per completare l’unione monetaria in Europa. Cui aggiungere l’introduzione nel mandato della Banca Centrale Europea, attraverso opportune modifiche dei Trattati, oltre all’obiettivo del mantenimento della stabilità dei prezzi, anche quello del livello massimo di occupazione e, di conseguenza, la crescita, al pari della Federal Reserve americana.
Tutto ciò dovrà realizzarsi attraverso l’indicazione puntuale di date, percorsi e modifiche dei trattati necessarie, a partire da subito, e comunque entro le elezioni europee previste per metà 2014.
2.4 Che fare in Italia
Per reagire alla crisi della democrazia e al dilagare dell’antipolitica, diventa necessario tornare virtuosi attraverso la crescita, la riduzione del debito pubblico, l’aumento della produttività del lavoro e della competitività dell’intero sistema paese, così da ri-legittimare le istituzioni e avere le
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carte in regola per tornare a partecipare, nelle condizioni e con le risorse opportune, alla realizzazione in maniera forte, lungimirante e duratura, una volta per tutte, del grande progetto europeo.
Finora il Governo Monti ha proseguito l’azione del Governo Berlusconi sul terreno della tenuta dei conti e di alcune riforme strutturali: tutti interventi che abbiamo appoggiato lealmente per riuscire a superare questa fase assai difficile. Di conseguenza non abbiamo nulla da recriminare rispetto a quello che abbiamo fatto nel corso di questi mesi e al sostegno che abbiamo dato al governo Monti. Il rigore però, ha anche prodotto recessione e a sua volta la recessione rischia di rimettere in questione i conti. Per questo bisogna partire da ciò che ha finora fatto il governo Monti per lavorare sullo sviluppo: rigore e crescita è un’endiade che va costruita e realizzata.
Per amor di verità, il Documento di Economia e Finanza, elaborato ad aprile 2011, secondo le scadenze previste dal semestre europeo, prevedeva il pareggio di bilancio nel 2014 ed era stato approvato dalla Commissione e dal Consiglio europeo nel mese di giugno 2011. Successivamente, con la lettera del 5 agosto 2011, la BCE aveva chiesto l’anticipo del raggiungimento dell’obiettivo nel 2013, al fine di rassicurare i mercati. Il governo Berlusconi aveva adempiuto prontamente, in agosto, con la manovra correttiva dei conti pubblici per 64 miliardi di euro. Il peggioramento della congiuntura nell’intera eurozona nell’autunno 2011, tuttavia, aveva richiesto un ulteriore intervento correttivo, cui ha provveduto il governo Monti con il decreto “Salva Italia”, per 63 miliardi di euro. Manovra, quest’ultima, che ha contribuito solo per il 20% al risanamento dei conti pubblici in vista del pareggio di bilancio nel 2013, su 328 miliardi totali di manovre varate dal 2008, con effetti fino al 2014, di cui l’80% (265 miliardi) ad opera del governo Berlusconi.
Con riferimento al PD, solo con l’avvento del governo Monti, il segretario del PD, Pierluigi Bersani, e il suo responsabile economico, Stefano Fassina, hanno espresso, anche se non da subito, una contrapposizione al rigorismo di stampo tedesco, prendendo sempre più le distanze dal
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governo Monti e da quella che viene definita la sua “agenda”. Agenda che, a onor del vero, sarebbe più corretto definire come “agenda Berlusconi”: quella attuata con i provvedimenti di agosto 2011 e in precedenza con il maxi-emendamento alla Legge di Stabilità dell’11 novembre 2011.
Monti, nel suo programma di governo, su cui è stata votata la fiducia il 17 novembre 2011, non ha fatto altro che assumere totalmente quella impostazione, con la variante, dettata dal peggioramento congiunturale, della già citata manovra “Salva Italia”, basata in gran parte su un inasprimento fiscale sulla proprietà immobiliare, e quella dell’attuazione di riforme strutturali (pensioni e mercato del lavoro), che per definizione non dovrebbero afferire all’emergenza, ma che, con il governo Monti, sono state affrontate sotto la pressione dell’emergenza, e quindi con l’urgenza di chi ne ricerca gli effetti attesi di breve periodo sulle aspettative dei mercati.
Per quanto riguarda la nostra presenza in Europa, va anche detto che nei confronti dei profondi limiti e degli orientamenti unilaterali assunti dalle politiche monetarie ed economiche europee, eccessivamente rigoristi, sarebbe auspicabile che, all’interno del PPE, il PdL faccia sentire la sua voce: la partecipazione al PPE non deve consistere solo nell’ottenere qualche carica ma nel dare un apporto critico per contribuire a modificare gli orientamenti del PPE finora eccessivamente subalterni alla linea della CDU.
Infine, la crisi in atto è anche espressione di una debolezza di governance che non è solo europea, ma pure italiana. Per tutte le ragioni che si sono sinora illustrate è evidente che, affinché tutte le manovre che si sono realizzate non siano divorate dai mercati e rese dunque inutili, la prima riforma strutturale da fare è quella dell’architettura costituzionale, dei motori della decisione e della credibilità futura.
L’evoluzione della nostra storia politica ci indica una soluzione. I partiti da soli non riescono a disciplinarsi, è necessario che i cittadini possano investire qualcuno della specifica responsabilità democratica di mantenere il motore funzionante anche nel medio periodo. La storia del nostro
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parlamentarismo è molto simile, da questo punto di vista a quella francese. Anche la soluzione può essere simile: il semi-presidenzialismo con elezione popolare e diretta del capo dello Stato. Che, inoltre sarebbe l’equilibrato contrappeso per l’improcrastinabile compimento del federalismo anche sul piano fiscale e dell’organizzazione parlamentare.
A questo punto c’è un solo modo per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati internazionali: dare un doppio fortissimo segnale: verticalizzare la governance, eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica, assicurando una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. E cambiare la politica economica, attaccando il debito: la vera grande anomalia e debolezza dell’Italia. Due facce della stessa medaglia.
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3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica
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3. LE NOSTRE PROPOSTE DI RIFORMA ISTITUZIONALE E DI POLITICA ECONOMICA
3.1 Architettura costituzionale dello stato e legge elettorale
Una democrazia non può funzionare bene e a lungo senza possibilità di ricambio, senza competizione tra alternative, senza che i cittadini possano dire la loro sulla cosa che conta di più: quale leader, quale governo e quale maggioranza debba governarli. Nei Paesi che contano succede così. E non è un caso.
L’alternativa è un fossato sempre più largo tra una politica asserragliata nella paura e cittadini arrabbiati, una miscela esplosiva. Per non parlare di quanto potrebbe succedere in Parlamento: instabilità, veti, contrattazione paralizzante. Ci illudiamo se pensiamo che il ricorso a soluzioni eccezionali, come governi tecnici, possano compensare questi effetti. I governi hanno bisogno di un sostegno diretto dei cittadini: di cittadini che li scelgano, non che li subiscano.
Il timore è che facendo riforme difensive, domani ci ritroviamo con istituzioni persino più deboli, in cui nessuno può vincere, in cui nessuno può veramente decidere. E cambiarle, a quel punto, potrebbe divenire impossibile. Per questo occorre offrire ai cittadini una alternativa possibile: il modello semipresidenziale.
Un’alternativa che è motivata dalla convinzione che questa sia la soluzione più adatta all’Italia. Certo non l’unica, ma oggi la più adatta. Per ragioni storiche, per ragioni politiche, per il modo in cui si è venuta evolvendo la Costituzione vivente. In questa direzione andava la scelta fatta nella Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, in questa direzione è andata l’interpretazione del ruolo del Capo dello Stato nei momenti di crisi.
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3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica
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Il presidenzialismo alla francese può allineare la Costituzione formale alle tendenze della costituzione vivente. È un sistema che ha dato buona prova di sé, aiutando, in Francia, partiti in precedenza frammentati e litigiosi ad orientarsi verso un assetto e comportamenti più virtuosi. In un momento in cui tutti i partiti italiani sono in fase di ristrutturazione, avere un punto fermo nella guida responsabile di un Capo dello Stato legittimato dai cittadini può aiutare quel processo, evitando il rischio dell’anarchia e di involuzioni autoritarie. Infine il presidenzialismo è un grande fattore di unità nazionale. La competizione attraversa l’intero Paese. Esso può pertanto rappresentare un ottimo contrappeso per un federalismo equilibrato e responsabile.
Abbiamo l’opportunità di colmare quel gap tra la nostra e le altre democrazie avanzate. Ciò che i costituenti stessi avrebbero voluto fare, ma ai quali fu impedito dalle condizioni storiche. E se fu saggio che, allora, non l’abbiano fatto, sarebbe colpevole non farlo oggi. Perché tanta acqua è passata sotto i ponti e l’applicazione della seconda parte della Costituzione si è avvitata in distorsioni e manipolazioni imposte dalla necessità del tempo. Una necessità fisiologica nell’evoluzione delle democrazie. Ma che noi abbiamo dovuto drammatizzare, chiamandola sempre più di frequente “emergenza”, proprio per giustificare forzature senza le quali la Costituzione sarebbe saltata.
Oggi abbiamo una grande occasione. La crisi della nostra economia, ma anche della nostra democrazia, paradossalmente, ci dà almeno questa opportunità. Di guardare i nostri mali con spietata lucidità e di assumerci le nostre responsabilità. Perché il modello italiano che alterna democrazia a basso rendimento e “stati di eccezione” a direzione presidenziale, non può essere un modello permanente.
Il fine settimana del 6 maggio scorso ci ha posti davanti a un grande bivio: se somigliare di più alla Grecia, dove non si è riusciti a costituire una maggioranza parlamentare che sostenesse il governo e si son dovute indire nuove elezioni, oppure alla Francia, dove il presidente François Hollande si è insediato il giorno dopo le elezioni ed è subito volato in
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Germania in visita ufficiale dalla cancelliera Angela Merkel e si è subito messo alla guida non solo del suo Paese, ma anche degli Stati europei che vogliono un mutamento di governance a livello di Unione per mettere al sicuro la moneta unica.
Nella primavera del 2013 si determinerà nel nostro Paese una straordinaria coincidenza: la scadenza della legislatura e la scadenza del mandato del presidente della Repubblica. È un’occasione storica per mettere i cittadini nelle condizioni di poter scegliere direttamente chi li governa: i parlamentari, il governo e il presidente della Repubblica. La domanda che responsabilmente ci dobbiamo porre tutti è questa: vogliamo che siano i partiti, con accordi oscuri e incontrollati, a scegliere il prossimo Capo dello Stato, o vogliamo che siano gli elettori alla luce del sole, con un voto libero e democratico? E sulla base di una proposta programmatica, un’agenda, chiara e inequivocabile?
In Italia, dal 1948 ad oggi non c’è mai stato, e non c’è tuttora, alcun sistema per punire chi fa cadere i governi. Nella prima Repubblica questa situazione è stata tollerata perché i governi erano fatti dai partiti; ma dal 1994 non è più così e sono i cittadini a decidere da chi vogliono essere governati. Ribaltoni e ribaltini sono perciò un tradimento politico della volontà popolare, senza sanzione per i traditori. Nessuna riforma costituzionale ha senso se non scongiura questo rischio.
Anche la legge elettorale da sola non serve a nulla. Perché il problema non è avere un governo la sera delle elezioni: il problema è evitare che una minoranza lo faccia cadere a proprio piacimento qualche mese dopo. Un presidente eletto dai cittadini ha il potere e la legittimazione di sanzionare chi, nel parlamento, lavora per creare instabilità e trarne vantaggi politici. Un presidente eletto ha la legittimazione politica di sciogliere le camere e costringere chi ordisce imboscate a darne conto agli elettori. Un presidente eletto ha la legittimazione politica per progettare il futuro.
Nei momenti di crisi, il presidente della Repubblica non è più solo un notaio, ma il garante della continuità istituzionale e della stabilità dell’indirizzo politico-democratico. Perché i partiti dovrebbero essere più
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bravi dei cittadini a scegliere il capo dello Stato? È questa la domanda cui deve rispondere chi è contrario al presidenzialismo.
Nell’attuale assetto istituzionale i cittadini possono scegliere il proprio sindaco, il proprio presidente di Provincia e il proprio presidente della Regione. Non c’è motivo per cui non abbiano diritto di scegliere il proprio presidente della Repubblica. Potrebbero esserci due sole ragioni per evitare questo sbocco. Il primo è quello del conservatorismo costituzionale. L’altro potrebbe essere quello che i partiti vogliano conservare il potere di nominare il Capo dello Stato. A nostro avviso non esistono più le ragioni dell’una o dell’altra cosa.
Piuttosto, nell’assenza di queste scelta, non c’è da stupirsi allora dell’aumento dell’astensione e del voto di protesta. È quando le istituzioni sono deboli e instabili che vince l’antipolitica, mentre ciò non accade quando le istituzioni sono democraticamente legittimate e hanno un effettivo potere di realizzare le promesse elettorali. Da quale parte vogliamo stare?
L’Italia ha bisogno di una riforma elettorale che razionalizzi il bipartitismo/bipolarismo e rafforzi la stabilità dei governi. Una legge elettorale che ottimizzi crescita e benessere, riduca l’intollerabile frammentazione politica, renda la politica comprensibile e trasparente.
E’ indispensabile approvare una nuova legge elettorale per due ragioni di fondo, quella che l’opinione pubblica non accetta più che i parlamentari siano nominati dai partiti e perché l’attuale premio di maggioranza è eccessivo e darebbe il controllo del Parlamento anche a coalizioni fortemente minoritarie nel paese.
Proprio sul filo di una scelta sistemica di grande valore noi, anche nel dibattito al Senato, abbiamo affermato la disponibilità a fare nostro il sistema francese nella sua globalità, elezione diretta del Presidente della Repubblica e elezione a due turni dei Parlamentari. La sinistra ha vanificato questa disponibilità prendendo del sistema francese solo quello che le appariva più conveniente, e cioè solo il sistema elettorale a due turni, rifiutando ogni forma di presidenzialismo. Allora, fermo rimanendo
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la nostra scelta globale, noi manifestiamo la nostra disponibilità a ricercare ogni soluzione ragionevole purché si superi la situazione attuale. Il Senato ha il merito di essere comunque arrivato ad una proposta, purtroppo contestata dal PD. Noi in questa sede ci limitiamo ad esprimere una opzione per un bipolarismo temperato, un ragionevole premio di maggioranza e poi, in alternativa, o il sistema della preferenze o quello che va sotto il nome di sistema elettorale spagnolo, basato su piccoli collegi.
Ormai è fin troppo chiaro: la capacità delle istituzioni di governo di agire efficacemente, e nel contempo di garantire stabilità per produrre, appunto, più benessere e più crescita, è inesorabilmente limitata dai quotidiani distinguo che nascono dai conflitti intra-governativi di esecutivi di coalizione, al loro interno variamente frammentati. Era così nella consociazione “parlamentare” della prima Repubblica, così è rimasto, purtroppo, nella consociazione “di coalizione” della seconda.
La composizione dei governi, la durata e la stabilità degli stessi, le larghe ed eterogenee coalizioni, i gruppi di interesse che le sostengono e, appunto, i conflitti che nascono al loro interno, sono le variabili che determinano, nei fatti, sempre e comunque più spesa pubblica e, quindi, più deficit, più debito. Determinano, cioè, una distorsione nella distribuzione delle risorse rispetto a quella che sarebbe generata da un sistema politico bipartitico/bipolare, il quale garantisce maggiore efficienza, intesa come capacità di ridurre al minimo gli attriti e le frizioni, che rallentano il perseguimento di uno specifico obiettivo. In altri termini, nei sistemi multipartitici, il bilancio pubblico viene utilizzato, sotto forma di alta pressione fiscale e/o alto indebitamento, più al fine di assorbire i conflitti all’interno delle coalizioni di governo, che per produrre beni e servizi per lo sviluppo.
Da questo deriva che i governi eletti in democrazie con sistemi maggioritari/bipartitici/bipolari tendono a tagliare le tasse, ma anche la spesa pubblica, in modo particolare durante gli anni elettorali. Mentre nelle democrazie con rappresentanza proporzionale l’evidenza empirica registra tagli alle tasse meno pronunciati e non registra tagli alla spesa
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pubblica. Questo perché il nesso tra il potere di controllo degli elettori e la rappresentanza politica è molto più diretto nei sistemi bipartitici/bipolari rispetto a quelli proporzionali.
La letteratura economica suggerisce, a proposito delle conseguenze sulla spesa pubblica e sulla politica fiscale in presenza di forme di governo e sistemi elettorali diversi, che le forme di governo, e ancor di più le leggi elettorali, rafforzano o indeboliscono il potere di controllo (accountability) che gli elettori hanno sui rappresentati politici eletti. Il grado di controllo, a sua volta, condiziona le performance economiche con risultati opposti in termini di finanza pubblica.
In particolare, i sistemi bipartitici/bipolari rafforzano il nesso tra elettore e obiettivi di corretta gestione della finanza pubblica. Un governo sostenuto da un solo partito produce meno dispersione di risorse nello scambio politico con la propria base elettorale. Tutto ciò si traduce in minore spesa pubblica, minore pressione fiscale, minore deficit pubblico, minore debito pubblico. L’evidenza dei dati a proposito è significativa e quantitativamente importante.
Se ciò non bastasse, i sistemi bipartitici/bipolari introducono l’idea che le elezioni siano una competizione nella quale la lista delle cose da fare è già scritta prima del voto e che i partiti non siano dei semplici delegati, ma soggetti chiamati ad operare sintesi prima delle elezioni. Sintesi definite nei programmi di governo e incarnate dalle personalità dei leader che si assumono la responsabilità della loro realizzazione; sintesi sulle quali gli elettori si pronunciano dentro le urne, assegnando una maggioranza solida al progetto che li convince di più.
I programmi elettorali diventano così le agende competitive, quanto alle riforme costituzionali e quanto agli impegni dell’esecutivo e del parlamento. Agende che contengono le diverse visioni di architettura dello Stato e disegni di legge già pronti per essere incardinati, con relative scadenze di approvazione e, quindi, di realizzazione dei contenuti. Nel nostro caso, in questa particolare congiuntura, con il “ricatto” continuo dei mercati attraverso gli spread, un’agenda che riguardi in particolare
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l’attuazione del presidenzialismo e le leggi di politica economica previste nell’ambito del semestre europeo, quale il Documento di Economia e Finanza (DEF), che comprende il Programma di Stabilità (PdS) e il Programma Nazionale di Riforma (PNR): i nostri impegni nei confronti dell’Europa.
3.2 Una nuova politica economica
Occorre intervenire in maniera decisiva per una nuova politica economica e per modernizzare il paese. Per farlo tornare a crescere assieme all’Europa. Basta, dunque, con i ricatti della Germania, che ha portato governi e parlamenti ad approvare riforme sbagliate, basate su analisi parziali e distorte della crisi, che tendevano alla colpevolizzazione degli Stati piuttosto che alla soluzione strutturale in sede comunitaria degli squilibri macroeconomici nella costruzione dell’euro.
Cambiare la politica economica si può e si deve. Significa conciliare due esigenze. La prima è quella di non tornare indietro, dopo gli impegni presi e le conseguenze negative sopportate, rispetto agli obiettivi fissati di pareggio di bilancio, ma prestando la massima attenzione a non mancare l’obiettivo per “eccesso di rigore” (overshooting). Ciò vuol dire ammettere, da parte di tutti, gli errori e fare manutenzione. C’è lo spazio in sede di riforma fiscale e altro spazio si può trovare, come del resto si stava facendo da anni, in sede di riforma della Pubblica amministrazione o, come è ora più di moda, in sede di Spending review.
L’importante è capire che non ci sono scorciatoie, e quelle che appaiono salvifiche spesso sono pericolose perché piene di buche. Ma l’obiettivo fondamentale è quello di continuare la pressione in sede europea per un mutamento di politica economica. Su questo terreno il governo è senza dubbio riuscito a trovare spazi di autorevolezza notevoli perché supportato da una maggioranza politica in Parlamento senza precedenti. Si tratta di continuare a utilizzarla in modo coerente con l’azione della BCE, la cui politica monetaria espansiva tuttavia viene sterilizzata
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dall’eccesso di rigore restrittivo nelle politiche di bilancio che ancora domina a livello europeo.
Come ci spiegano i più grandi banchieri centrali, Ben Bernanke e Mario Draghi in primis, nonché economisti come i Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, se la crisi economica e finanziaria non è ancora stata risolta, ciò è dovuto proprio alla difficile trasmissione della politica monetaria. Se, infatti, la politica di bilancio è eccessivamente restrittiva, non solo depotenzia l’effetto espansivo di un aumento della liquidità, agendo in senso contrario, ma, determinando aspettative negative, impedisce alla liquidità di trasmettersi all’economia reale.
La liquidità non si trasforma, dunque, né in credito a imprese e famiglie da parte del sistema bancario, che utilizza la maggiore quantità di moneta disponibile per rafforzare i propri standard di patrimonializzazione intaccati dalla crisi economica, né in investimenti (e conseguenti assunzioni) da parte delle imprese, né, infine, in consumi da parte delle famiglie, che nell’incertezza propendono più per il risparmio. Ciò significa che la riduzione dei tassi di interesse inseguita dalle banche centrali non determina livelli di reddito più elevati, come invece previsto quando i canali di trasmissione di un’espansione monetaria all’economia reale funzionano.
Ma veniamo all’altro aspetto dell’emergenza, quello relativo all’urgenza con la quale sono state disegnate le riforme strutturali fondamentali attuate dal governo, quella della pensioni e quella del mercato del lavoro. Che ci fosse l’urgenza di vararle non è in discussione, soprattutto la prima, ancorché si trattasse di realizzare l’ultimo miglio di un assetto già virtuoso e in equilibrio, ma che assumeva un forte valore simbolico di fronte a cosiddetti mercati assetati di sangue. Ma gli errori tecnici, a volte dovuti alla fretta, a volte alla subalternità a posizioni conservatrici (come quelle della CGIL), a volte alla scarsa conoscenza dei dati, un prossimo governo, pur in continuità con gli obiettivi e le idee riformatrici dichiarate dall’attuale governo, dovrà correggerli.
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Non sarà difficile farlo per ciò che riguarda le pensioni, se si escluderanno i tentativi di annullare la sostanza della riforma (incentrata sull’estensione pro rata del calcolo contributivo e sul superamento delle pensioni di anzianità nonché sull’esigenza di spostare l’età pensionabile e di uniformare i trattamenti), e ci si concentrerà appunto sulla correzione degli errori attinenti in particolare la grave sottovalutazione del problema della transizione.
Per ciò che riguarda la riforma del mercato del lavoro, la manutenzione dovrà essere più sostanziale affinché essa risponda, in primo luogo, all’obiettivo di ridurre il rischio di assumere (dalla riduzione di questo rischio consegue l’aumento di occupazione e la riduzione conseguente del precariato patologico) e, in secondo luogo, alla necessità di detassare i salari di produttività e di introdurre, finalmente nel nostro sistema, il metodo della contrattazione decentrata, come richiesto, tra l’altro, dalla Banca Centrale Europea nell’ormai famosa lettera all’Italia del 5 agosto 2011.
Per far fronte a tutto ciò, oggi occorre avviare una riflessione alta, riprendendo la discussione sulla delega fiscale del governo Berlusconi, per uno scambio vero tra imposizione diretta e imposizione indiretta, per passare dalla tassazione delle persone alle cose in maniera seria (e non ridicola), cioè l’idea di una “svalutazione fiscale” per aiutare a ridurre il divario di competitività di costi accumulato dall’Italia nell’ultimo decennio nei confronti della Germania e altri paesi concorrenti, divario non correggibile con l’aggiustamento del tasso di cambio nominale. Il disegno complessivo della riforma fiscale in direzione di un sistema pro-crescita è anch’esso un terreno di confronto da sottrarre alla demagogia elettorale.
Ne abbiamo la possibilità attuando, inoltre, secondo le scadenze già previste, il Federalismo fiscale, in un processo di razionalizzazione della spesa, da integrare con la Spending review, di responsabilizzazione degli enti territoriali e di passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard, in un ambito di sostanziale revisione della riforma del titolo V che tanti problemi ha creato alla funzionalità delle istituzioni. Ed è il momento di
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avviare la riforma delle riforme: una riduzione strutturale, in 5 anni, del debito pubblico per almeno 400 miliardi di euro (circa 20-25 punti di PIL) come valore obiettivo, così da portare sotto il 100% il rapporto rispetto al PIL, al fine di ridurre, nello stesso arco temporale, la pressione fiscale di un punto percentuale all’anno (dal 45% attuale al 40%) e rilanciare gli investimenti.
Si rende altresì necessario dare seguito al piano di progressiva riduzione degli incentivi statali alle imprese per finanziare contestualmente la totale eliminazione dell’IRAP (gettito 30-35 miliardi), in un contesto di impatto neutro sui conti pubblici. Ed è fondamentale eliminare l’IMU sulla prima casa, per tornare all’IMU come prevista nell’ambito del Federalismo Fiscale: a decorrere dal 2013, escluse le abitazioni principali, direttamente riscossa dai Comuni, in sostituzione dell’ICI e della componente immobiliare di IRPEF e relative addizionali. Eliminare l’IMU sulla prima casa stimola il settore delle costruzioni e, di conseguenza, l’intera economia. Gli investimenti in edilizia hanno il più alto coefficiente di attivazione: un euro di spesa nel settore si trasforma in un multiplo di maggior prodotto interno lordo. Investimenti nel settore immobiliare vogliono dire crescita e occupazione.
Infine, la riduzione della pressione fiscale e un conseguente miglior rapporto fisco-contribuenti consente l’emersione dell’economia sommersa, che in Italia ammonta a 540 miliardi.
Con questo metodo di analisi di tutte le altre azioni concrete riformatrici in direzione di una liberalizzazione dell’economia, come l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha segnalato al governo e al Parlamento nella relazione del 2 ottobre 2012 in 72 punti, in tema di servizi pubblici locali, energia elettrica e gas, trasporti, settore bancario e assicurativo, servizi professionali, forse sarà possibile capire meglio il grado di continuità e di discontinuità che è necessario proporre per il futuro.
Il presidenzialismo, dunque, come verticalizzazione democratica e non tecnocratica della governance; e l’attacco al debito, come valorizzazione di mercato della dimensione orizzontale diffusa degli interessi dei territori e
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delle imprese: una vera e propria guerra di liberazione dalla cattiva politica, dalle cattive rendite di posizione clientelari, sindacali, corporative, dai monopoli, dai poteri forti.
L’operazione nel suo complesso (presidenzialismo e riduzione strutturale del debito pubblico) ha in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvia finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del Paese che ci consente di essere europei a 360 gradi e che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il Paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. In questo senso il ricatto degli spread può paradossalmente diventare una grande occasione non solo per l’Italia, ma anche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.
3.3 Se riparte il Sud riparte il Paese
Se riparte il Sud riparte il Paese. Nel Mezzogiorno gli indicatori economici rappresentano una società che ha enormi difficoltà. Il Pil cresce meno della Media nazionale, il reddito pro capite è più vicino alle aree critiche del Mediterraneo, molto distante dalla media del Nord del Paese e dalle zone più ricche dell’Europa.
In questo contesto il Sud del Paese può e deve diventare una soluzione e non un problema. E’qui, infatti, che ci sono i maggiori margini di crescita, è qui che c’è la straordinaria risorsa del capitale umano, è qui che si gioca la partita del buon utilizzo dei fondi europei, è da qui che deve partire la sfida per il federalismo.
Ci sono tutte le condizioni per un vantaggio geopolitico, per essere protagonisti nel Mediterraneo. Un mare che cresce e che rappresenta una occasione di crescita. Bisogna guardare a questa possibilità, lavorarci con
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politiche concrete e mirate. E’ questa la porta nella sponda del Mediterraneo.
In questa direzione devono andare i grandi investimenti sulla logistica e sui porti, sui Beni Culturali e sulla Ricerca e l’Ambiente. Il sistema delle infrastrutture è dunque di fondamentale importanza.
E’ anche in questa ottica che bisogna dare continuità al ‘Piano di Azione e Coesione’ e condividere con la Commissione Europea e il Governo il percorso per un migliore utilizzo dei fondi comunitari attraverso una programmazione che si concentri su obiettivi strategici.
Abbiamo il compito di introdurre regole capaci di riconoscere le perfomance di miglioramento, di individuare le responsabilità di chi sbaglia e le intuizioni di chi coniuga la capacità di contenere la spesa e pensare politiche di sviluppo.
Dobbiamo archiviare la stagione della spesa pubblica improduttiva, l’idea delle rendite di posizione.
L’innovazione, la trasparenza delle procedure e delle scelte, la voglia di misurarsi sul terreno della competitività devono rappresentare i punti di svolta di un nuovo Mezzogiorno.
A questo scopo,bisogna tenere presente che il negoziato complessivo sulle prospettive finanziarie dell’Europa nel 2014-2020 avviene in un periodo delicatissimo per le sorti stesse dell’Unione Europea.
Nella consapevolezza della drammatica crisi e nella convinzione dell’irrinunciabilità del ruolo dell’Europa e delle sue funzioni riteniamo di fondamentale importanza che il futuro bilancio europeo sia all’altezza delle sfide in atto, proponendo idonee soluzioni sulle modalità di uscita dalla crisi economico-finanziaria globale.
Per quanto riguarda specificamente l’Italia, in considerazione dell’attuale congiuntura economica e dello stato delle finanze pubbliche nazionali e regionali, le risorse dedicate alla politica regionale e di coesione si presentano come assolutamente strategiche per il mantenimento di politiche pubbliche per lo sviluppo, in linea con gli obiettivi di Europa 2020, per tutto il territorio nazionale e in particolare per il Sud.
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4. ETICA E VALORI. IL RAPPORTO TRA STATO, ECONOMIA E SOCIETA’
Su argomenti delicati, che toccano la sfera privata dell’individuo, lo Stato deve limitarsi a dettare linee di indirizzo che verranno poi sviluppate e applicate dalla società civile sia attraverso codici di autoregolamentazione delle imprese o delle organizzazioni sia attraverso la libera determinazione di associazioni o di comitati etici.
In tale contesto, il ricorso alla soft law, vale a dire ad atti para-normativi, prevalentemente afferenti alla moral suasion, al pari di quanto avviene nei principali organismi internazionali (ONU) e nelle istituzioni europee, appare lo strumento di regolazione meno invasivo e più efficace.
In ambito europeo, per esempio, vengono elaborati codici di disciplina o linee guida che indicano come la Commissione europea intende utilizzare i propri poteri e adempiere ai propri compiti nei diversi ambiti di competenza. Passa poi nella responsabilità degli Stati la declinazione, in base alle specificità di ognuno, delle indicazioni di massima fornite dalla Commissione. Lo stesso meccanismo devono applicare i governi nazionali nei confronti della società civile per temi che riguardano scelte personali dei cittadini e delle professioni.
In una società sempre più multiculturale (in cui la presenza di lavoratori e cittadini stranieri è divenuto un aspetto di carattere strutturale soprattutto sul piano del mercato del lavoro) e
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aperta alle interazioni globali diventa infatti via via più difficile proporre, e certo imporre, regole stringenti di comportamento e di condivisione dei principi etici e dei valori posti alla base della convivenza civile attraverso strumenti normativi tradizionali che, al contrario, rischiano di creare inutili tensioni e contrapposizioni.
Viceversa offrire al dibattito e alla autoregolamentazione elementi di riferimento sui principi fondanti la salvaguardia e la promozione dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona e dei gruppi sociali consente di accrescere la tutela della dignità della persona, del suo lavoro, delle sue aspirazioni ed attese.
Tra questi: il principio della inclusione sociale, ossia il pieno rispetto della dignità e della diversità di ciascuno, qualunque sia la sua religione, il suo genere, il suo lavoro, la sua condizione economica e la tutela di ogni sua aspirazione alla crescita personale e alla partecipazione alla vita collettiva; il principio della solidarietà, dell’aiuto e della assistenza che è dovuta nei limiti delle possibilità dello Stato e delle sue organizzazioni a ciascuno in base alle proprie necessità; il principio della dignità della persona e della vita, che delimita la libertà di scelta anche di fronte a malattie degenerative o a accanimenti terapeutici; il principio della riservatezza che in un mondo sempre più pervaso da tecnologie intrusive della vita privata ma anche da un crescente bisogno di sicurezza sta perdendo i contorni di principio etico e divenendo schema burocratico; il principio della sostenibilità dello sviluppo e del consumo delle risorse ambientali e naturali per prevenire costi economici e sociali a carico delle generazioni future; il principio della libertà di iniziativa perché ciò che non è espressamente vietato sia consentito nei limiti del rispetto degli altri interessi individuali e collettivi.
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In questo quadro, per ciò che attiene lo Stato e i rapporti sociali si possono indicare in sintesi alcuni principi di carattere generale a cui ispirare l’azione dei riformisti: lo Stato deve assicurare l’essenziale a tutti e dare più solo a chi ne ha bisogno; regolare i comportamenti dei cittadini, non sostituirsi alla loro autonoma iniziativa per risolvere i loro problemi; garantire ai cittadini l’eguaglianza delle opportunità. Ciò significa che ad ognuno spettano le medesime condizioni di partenza, ma anche gli strumenti per non essere emarginato durante il cammino.
Inoltre, le politiche sociali non devono assuefare il cittadino all’assistenza, ma riattivare le sue possibilità di procurarsi il necessario in piena autonomia ed autosufficienza. Il concetto di “pubblico” non coincide necessariamente con “bene fornito dallo Stato”. Si possono perseguire finalità di interesse pubblico e generale anche con forme privatistiche, più adatte ed efficaci sul piano della gestione. Lo Stato deve incoraggiare la solidarietà tra i cittadini, all’interno delle comunità a cui appartengono. Ma ciascuna persona è responsabile della propria condizione e del proprio futuro.
Per essere equa una politica di welfare non può gravare eccessivamente sulle generazioni in attività che ne assicurano il finanziamento. Non vi può essere sicurezza sociale a debito e a carico delle generazioni future, non si può progredire veramente spendendo oltre le proprie disponibilità. Il presente non è consegnato dai padri ma preso in prestito dai figli ai quali dobbiamo restituirlo.