Caso Moro, la voce mai ascoltata dell’artificiere che trovò il corpo

moro

Vitantonio Raso
La bomba umana
Casa editrice Seneca

Questo libro è un’opera diversa dal solito perché diverso dal solito è il suo autore. Vitantonio Raso, infatti, ha operato come artificiere-antisabotatore in un periodo bollente dei nostri anni settanta, ma lo ha fatto con un bagaglio culturale di filosofia e pedagogia che concernono l’una i problemi fondamentali dell’uomo e, l’altra, i metodi inerenti l’educazione dei giovani. Quella di Vitantonio Raso è stata la scelta coerente di una missione: filosoficamente, a salvaguardia della vita dell’uomo con prestazioni eroiche (se si considerano i mezzi necessari per operare di cui si disponeva in quel tempo); pedagogicamente, con la migliore educazione possibile: quella dell’esempio. Dal suo vissuto e dalle sue esperienze è nato un libro vivo, legato con occhio sensibile alle cose, ai fatti, alle persone, al contrasto fra la legalità e la sovversione, che si apre con la tragica scoperta del corpo dell’onorevole Moro, stivato nel bagagliaio di una Renault 4. Scoperta di cui l’autore fu l’unico protagonista. Seguono poi gli argomenti di una vita intensa, che toccano la sensibilità del lettore perché spaziano dalla famiglia ai pericoli delle prestazioni professionali, dalle amicizie agli scontri di culture contrapposte. Ma il lettore si trova davanti a un’opera fuori da ogni abitudinaria retorica, non sentenziosa e programmatica, che avvince in virtù di una scrittura agile e mordente, ma anche venata talvolta da un garbato sorriso. Come si addice alla migliore letteratura.
Vitantonio Raso nasce a Serre (Sa) ma risiede a Viareggio. Cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Pensionato della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nelle sue esperienze lavorative ha sempre ricoperto incarichi importanti. Oggi in Versilia si dedica completamente alla famiglia e all’affetto della moglie e delle figlie, coltivando la sua passione per il mare.


INTERVISTA A VITANTONIO RASO, VENERDI’ 12 APRILE 2013 (a cura di Luca Balduzzi)

La sua attività legata al “Caso Moro” comincia il giorno stesso del rapimento, il 16 marzo del 1978…
La mia attività per il caso Moro inizia la mattina del 16 di marzo 1978 in Via Mario Fani, quartiere Trionfale di Roma. Io unitamente ad un mio collega fummo tra i primi ad arrivare sul posto, allora vi era ordine tassativo tra gli Organi di Polizia che qualsiasi oggetto (valigia, pacco o macchina) segnalato di contenere una bomba oppure ordigno esplosivo, non si doveva toccare nulla se non giungeva l’Artificiere Antisabotatore. A quei tempi vi erano dei segnali molto forti per una azione eclatante da parte dei terroristi, quando dico eclatante ovviamente mi riferisco sempre ad ordigni esplosivi piazzati in qualche posto di Roma e prettamente al mio lavoro. Io ho definito via Fani un teatro di morte, centinaia di colpi sparati dalle armi dei terroristi, i corpi senza vita degli uomini della scorta tutti ancora nelle auto, solo l’agente Iozzino riuscì ad uscire dall’abitacolo dell’auto di scorta e fare fuoco ma il fuoco altrettanto incrociato dei terroristi non gli diede scampo. Alcuni testimoni affacciati ai balconi limitrofi testimoniarono che i terroristi nell’andare via lanciarono nelle auto degli oggetti non identificati infatti, sotto i piedi dell’autista della Fiat 130, Appuntato Domenico Ricci, vi era un pacchetto che dava tutto il sospetto di un ordigno esplosivo che dopo circa 30 minuti di lavoro diede esito negativo. Mi è rimasto impresso che nel prendere questo pacchetto sotto i suoi piedi a ridosso dei pedali della frizione e del freno, mi sono macchiato del sangue di Ricci. All’epoca non avevo ancora 24 anni e come si può ben capire per un ragazzo della mia età entrare in un teatro di morte non è il massimo della vita di un ragazzo che dovrebbe pensare ad altro. Comunque quello era il mio mestiere e ho cercato sempre di farlo con la massima serietà e zelo, nonché alto senso del dovere. Ispezionammo le altre auto presenti sul posto e dopo alcune ore le consegnammo alla scientifica. Per noi il lavoro era concluso.

Che atmosfera si respirava a Roma nei successivi 55 giorni di sequestro? Come li viveva il suo reparto?
L’atmosfera di Roma in quei 55 giorni che si respirava era, come se da un momento all’altro dovesse accadere qualche cosa di grosso. Paragonerei quei giorni all’11 settembre americano. Ad ogni angolo di Roma vi era uno spiegamento di Polizia e Carabinieri, tutte le consolari erano super controllate in uscita ed in entrata, il grande raccordo anulare ogni chilometro posti di blocco, per la prima volta fu attivato l’Esercito come appoggio alle Forze dell’Ordine. Ho visto le persone uscire dai supermercati con i carrelli pieni di provviste, c’era molta paura. Anche la Criminalità Organizzata era ferma, rapine, furti, scippi di nessun genere. Al mio reparto eravamo tutti “consegnati” perché in quei giorni le attivazioni da parte delle sale operative erano tante sia di giorno che di notte. Qualsiasi cosa strana depositata in qualche angolo di Roma ed anche fuori Roma che dava sospetto venivano a prenderci i carabinieri o la polizia per interventi, quei giorni c’erano anche molti mitomani qualsiasi cosa, ad esempio una valigia vecchia vicino i cassonetti costituiva un pericolo. Roma era super blindata.

Che cosa le hanno detto, ma soprattutto che cosa le hanno tenuto nascosto, il 9 maggio, quando è stato chiamato per un intervento in via Caetani?
Da considerare che io non ero a conoscenza che la mattina vi era stata una telefonata delle brigate rosse alla segreteria dell’On. Moro dove annunciavano di aver posteggiato una macchina del tipo Renault R/4 di colore amaranto in Via Michelangelo Caetani con il corpo di Aldo Moro senza vita. Quando venne a rilevarmi una volante della Polizia, normalmente le prime notizie si attingevano dal Capo Pattuglia. Quella mattina vi fu un silenzio: alla mia domanda “Dove ci stavamo recando e per quale motivo?”, mi fu risposto che al centro di Roma vi era un’auto sospetta di contenere una bomba e null’altro, silenzio di tomba. Giunto in Via delle Botteghe oscure, scesi dall’autovettura e mi indicarono che a metà di Via Caetani vi era un funzionario di Polizia che mi aspettava. Quando arrivai al suo cospetto, chiesi anche a lui notizie. Mi illustrò la macchina e mi disse anche lui che avevano ricevuto una telefonata anonima e che quella macchina conteneva un ordigno esplosivo.

Quando ha cominciato a capire che il contenuto della Renault 4 non era una bomba, bensì il cadavere dell’onorevole Aldo Moro?
In un primo accertamento visivo esterno mi accorsi che sotto lo sterzo sul tappetino lato guidatore vi erano dei bossoli per pistola esplosi. Dopo aver forzato un finestrino dello sportello anteriore destro mi introdussi nell’abitacolo e dopo un accurato controllo nella parte anteriore decisi di scavalcare il sedile e mi portai su quello posteriore. Fui subito attratto da quella coperta nel baule. Pian pianino infilai la mia mano destra sotto la coperta e toccai un qualche cosa di ruvido o peloso, era la barba incolta di Moro, ritirai immediatamente la mano in quanto mi presi paura, provai ad infilare nuovamente le mani e toccai il naso e le orecchie umane. Premetto che se qualcuno mi avesse detto che in quella macchina ci fosse stato il cadavere di Moro non avrei mai creduto ciò in quanto chi ricorda Moro era una persona alta non di media statura per cui, per me mai poteva esserci il cadavere dello statista.
Sempre sulla coperta sulla mia sinistra, quindi di spalle al volante, notai un borsetto mi pare in pelle o similpelle, presi il taglierino lo incisi e lo vuotai, dentro vi era un or0logio, una catenina d’oro ed un assegno di ventisettemila lire dell’allora Banco di Santo Spirito intestato ad Aldo Moro. Solo allora cominciai a capire che poteva esserci sotto quella coperta però mi rifiutavo di pensare. Presi coraggio tirai leggermente con cautela la coperta e scoprii il viso di quella persona. Al momento non lo riconobbi subito, aveva la barba incolta molto dimagrito ed il viso era rivolto verso il basso. Solo dopo una accurata osservazione mi accorsi del segno inconfondibile che aveva Moro sulla fronte. La ciocca di capelli bianchi. Sulla camicia sotto il bavero della giacca all’altezza del cuore un fazzoletto di colore bianco che tamponava le ferite inferte dagli spari a corta distanza, aveva 5/6 fori all’altezza del cuore.

A distanza di anni, che cosa prova ripensando a quei momenti?
Io in quel momento ho provato tantissima rabbia, ero talmente stanco sia di quella giornata che dei precedenti 54 giorni, mi veniva da piangere ma neanche le lacrime mi uscivano come senso di sfogo. Mi sentii come un servitore dello stato che aveva subito una sconfitta molto personale. Ancora oggi porto i segni di quei giorni, è fisiologico l’arrivo del 16 marzo di questi 35 anni, perdo il sorriso, il nervosismo sale alle stelle la notte non riesco a dormire. Non posso farci assolutamente niente non riesco a fare altrimenti ho provato ma è una cosa che mi assale più forte di me, sindrome da ricordo. Sono 35 anni che in questo periodo mi riduco in queste condizioni, vorrei tanto non parlarne mai più e metterci una pietra sopra ma non riesco.

Come si spiega il fatto che nessuno l’abbia mai chiamata a raccontare la sua versione dei fatti in nessuno dei processi seguiti al “Caso Moro”? Quali dubbi sul caso le rimangono, anche a distanza di anni?
Il fatto che non sono stato mai chiamato ai processi non riesco a ricondurlo ad un perché, forse è stato meglio così visto come sono andate le cose. Oppure avevano abbastanza elementi da non sentirmi. Non lo so non mi saprei dare, onestamente, una risposta. Ovviamente per tutto il resto personalmente mi rimangono molti dubbi sull’accaduto molti tasselli sicuramente mancano a questo pezzo di storia dell’Italia ma oramai il tutto fa parte solo della storia. Anche nelle scuole non si parla nè del caso Moro e neanche degli anni di piombo che hanno sicuramente segnato la nostra storia, insomma tutto è andato al dimenticatoio.