EUROPA, SALARI, POLITICHE PUBBLICHE
L’ Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c’è in tutto l’Occidente. Nei 34
Paesi dell’Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o
meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero
andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno
(un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni
lunghe dall’attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e
infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli
ultimi tempi). I posti che mancano nell’area Ocse diventerebbero così 100
milioni.
Il diavolo che minaccia l’Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal
settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l’enfasi
dell’antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi
europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo
curarsi degli effetti collaterali che deprimono l’economia, e dunque
l’occupazione.
Certo, da tempo la Banca d’Italia invoca politiche per la
crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile,
della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro.
Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge
la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri
di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una
ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della
ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall’insolvenza dei
poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E
poi crediamo davvero che l’Italia possa basarsi soltanto sull’estero quando le
imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E
l’Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non
torneranno a spendere?
Forse non è un caso se George Magnus, l’economista principe di Ubs che aveva capito la crisi
dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date
a Marx una chance di salvare l’economia mondiale». La sua è una provocazione.
Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il
taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli
arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il
progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato
la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un’impresa riceverà applausi,
se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l’accortezza di non costringere
poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa.
Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso
marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare
una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve
pagare il conto.
Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a
tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza
sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all’agenda il lavoro,
non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda
interna. Anche a costo di un po’ di inflazione.
Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non
censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d’inflazione. Del
resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta,
sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell’Eurozona, i debiti pubblici
di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un
governo che glielo chieda. E l’euro trema.
In queste condizioni, l’Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione
del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il
risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti
nell’economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol
dire un’altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti
rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se,
in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È
possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l’Irap alle
retribuzioni e al tempo stesso aumentare l’Irpef? Far pagare la sanità a tutti
i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti
sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po’ di inflazione, a
sollievo del debito pubblico, l’Italia dovrebbe convincere l’Eurozona ad
aumentare l’Iva, così da spostare un po’ di peso anche sulle importazioni,
avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell’Irpef. Insomma,
possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di
politica estera.
Massimo Mucchetti dal Corsera