Omicidio Vannini, l’ex fidanzata Martina Ciontoli esce già dal carcere

Vannini

Martina Ciontoli, l’ex fidanzata di Marco Vannini, è uscita dal carcere dopo aver scontato un terzo della pena

Alla ragazza, condannata a nove anni e quattro mesi in concorso con la sua famiglia per l’omicidio del giovane, è stata data la possibilità di lavorare all’esterno del carcere di Rebibbia, vista la buona condotta. Secondo quanto riporta Il Messaggero, la trentenne lavora nei giorni feriali in un bar di Roma, in zona Casal del Marmo.
La mamma di Marco: “Martina non è pentita”

La mamma di Marco Vannini commenta con amarezza la notizia

“Martina Ciontoli detenuta modello? Non credo lo meriti. È in carcere da maggio del 2021 e non ha mai avuto un segno di pentimento, nemmeno in questi tre anni e mezzo. Ce lo saremmo aspettato ma niente, almeno il fratello durante il processo una letterina l’ha letta. Visto che ora ha ricevuto questa sorta di premio, diventando in cella un modello da seguire, avrà una coscienza per dirci esattamente quello che è avvenuto in quella casa la sera in cui è morto mio figlio”.

Al Messaggero Marina Conte ha parlato anche della questione degli 80mila euro che i Ciontoli presero in prestito dalla banca un mese dopo il delitto, mettendo come garanzia la loro casa con ipoteca al doppio, senza mai pagare le rate. “Anche da questa storia legata a un bene materiale emerge come si fossero attivati già nei giorni seguenti all’omicidio solo per i propri tornaconto personali, pensando di poter recuperare tutto e vendendo anche dei beni in loro possesso”.

La ricostruzione della morte di Marco Vannini

Nel 2021 la Cassazione ha confermato la sentenza dell’appello bis e, dopo 6 anni e 5 gradi di giudizio, si è fatta così piena luce sulla morte del 21enne di Cerveteri, figlio unico, colpito da un proiettile nel bagno di casa dei Ciontoli la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. Marco era a casa della sua ragazza, Martina, a Ladispoli, centro urbano sul litorale a nord di Roma, la sera del 17 maggio 2015 quando fu colpito dallo sparo della pistola di Antonio Ciontoli. Da lì una catena di ritardi e omissioni che hanno, di fatto, causato la morte per emorragia.

Ciontoli, probabilmente nel tentativo di preservare la sua carriera militare, parlò di un attacco d’ansia, di una ferita con un pettine a punta. Invece Marco era in agonia perché il proiettile era arrivato al cuore. A ucciderlo, diranno poi i giudici, l’imprudenza e il ritardo nell’attivazione dei soccorsi. La sentenza d’appello bis, il 30 settembre dello scorso, aveva aggravato le posizioni di tutte e quattro gli imputati, dopo il rinvio della Cassazione, nel febbraio del 2020, della prima sentenza d’appello, che avevo riconosciuto l’ipotesi più lieve di omicidio colposo. In quell’occasione gli ermellini avevano indicato, invece, una decina di indizi di colpevolezza sufficienti a contestare l’omicidio volontario.

La morte di Marco sopraggiunse, avevano scritto i giudici motivando quella decisione, dopo il colpo di pistola “ascrivibile soltanto ad Antonio Ciontoli” che “rimase inerte ostacolando i soccorsi”, e fu “la conseguenza sia delle lesioni causate dallo sparo che della mancanza di soccorsi che, certamente, se tempestivamente attivati, avrebbero scongiurato l’effetto infausto”. Per la procura generale non esiste una ricostruzione alternativa. “Tutti mentirono – ha sostenuto la pg di Cassazione Olga Mignolo nella sua requisitoria -. Tutti hanno tenuto condotte omissive e reticenti“.
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