La cambiale europea

Di Maio vola

di Emiliano Scappatura – Si leggono diverse critiche contro la nomina diplomatica di Di Maio dell’Unione Europea, con relativa (e cospicua) retribuzione. Credo però che nessuna consideri la reale problematica che questa nomina incarna. Quasi tutti puntano infatti, per coprire il disprezzo verso il personaggio, sull’incompetenza, e molti non esitano a ritirare fuori la vecchia qualifica di “bibitaro” che l’uomo si sarebbe guadagnato quando da studente rimediava qualche soldo vendendo bibite allo stadio durante le partite.

Ho sempre creduto che semmai quella qualifica, in un paese come il nostro che a poco a poco è diventato sempre più classista e dove le alte cariche si tramandano di padre in figlio e per avere buone poltrone più che possedere dei grandi talenti devi avere dei buoni cognomi e i grossi stipendi, sebbene statali, sono diventati ereditari, sia piuttosto un complimento, ed indica che forse c’è speranza per chi nato senza grossi mezzi può ancora aspirare a diventare qualcuno (si tratta naturalmente di casi rari) e, piuttosto che nasconderlo, andrebbe esaltato in un curriculum, come di quei ragazzi che, senza mezzi, piuttosto che avere un padre che gli riempie la carta di credito i mezzi se li trovano da soli senza disprezzare (ancora) il lavoro comunque venga.

Quanto alla competenza, non saprei bene dire se Di Maio sia bene all’altezza del compito, ma non credo proprio, nello squallore mostrato dalla politica europea degli ultimi anni se chiunque lo sostituisse sarebbe migliore di lui: conoscendo il personaggio l’uomo è anzi se non un professionista un uomo abbastanza furbo da capire le situazioni mentre il rischio di avere al suo posto delle mezze tacche non sarebbe minimo.

Un’altra prospettiva

Credo che il problema vada invece inquadrato in un’altra prospettiva. Tutti in Italia hanno capito che quel posto Di Maio, se anche fosse il maggiore professionista del settore, non lo ha guadagnato per merito ma puzza parecchio di servilismo politico, un servilismo talmente grande che in Italia lo aveva portato finanche a un tradimento bieco. In Italia, nelle successive elezioni, prese un voto insignificante e venne spernacchiato da chi credeva di essersi liberato del personaggio. Ma a lui importava poco: sapeva di avere delle cambiali da riscuotere in Europa, dove la politica non si fonda sul voto popolare ma sul volere di chi comanda dietro le quinte, come sembra dimostrarsi. E questo ci porta a delle riflessioni etiche molto profonde.

E cioè che in Europa la democrazia conta fino a certo punto, che si ritrae ogni giorno di più. È quella che viene detta, con termine tecnico, la politica delle camarillas. Il voto crea il parlamento, ma chi comanda realmente lo si decide dentro i palazzi, che sono impermeabili alla elezioni. Ed indica come, ad esempio, una figura come Draghi, che in Italia senza passare per le elezioni si trovava a capo dell’esecutivo poi, anche dopo le dimissioni, riuscirebbe a “sdebitarsi” dei favori servendosi delle istituzioni continentali, a suo uso e consumo.

Il problema quindi non è di competenza, ma del modo come si opera la scelta. Ecco quindi che questo modo di operare investe e travolge tutto il sistema di valori su cui l’Occidente ha costruito la sua filosofia politica. Noi non crediamo naturalmente che la democrazia sia un sistema perfetto. Ha dei suoi limiti e ogni tanto produce, dietro la legalità (che non è la giustizia), qualche obbrobrio.

Ma continuiamo a pensare, come Churchill, che sia il meno difettoso dei sistemi, e che quindi vada preservato da coloro che con la scusa di questi limiti vorrebbero ridurla a pura formalità perché esigono, o per presunzione di conoscenza o per puro desiderio di autorità, di scavalcare la voluntas popolare. Che sarà giusta o sbagliata, ma a cui va dato conto. Se l’Occidente vuole ridurre, come pericolosamente alcuni segnali qua e là fanno intuire, la democrazia a un vuoto involucro formale nella convinzione che la funzione di guida e il possesso della Veritas vada riservata a una piccola classe dirigente, allora l’Occidente sta tradendo sé stesso e il fondamento etico su cui è costruito e che, nel bene e nel male lo ha condotto dove finora è giunto e gli ha permesso sviluppare certi valori a cui deve chiedersi se rinunciare.

Di Maio partì a suo tempo con delle idee precise di rinnovamento politico che si basavano proprio sullo scontro verso quelle caste che il potere a poco a poco se lo erano accaparrato per gestirlo in maniera personalistica e dopo qualche anno ha venduto sé stesso in una maniera squallida proprio alla peggiore di queste: è, insomma, ed è questo che nausea un po’ i suoi elettori, lo stereotipo di chi si serve del voto per fare i propri interessi. Che non è cosa nuova, ma nel suo caso è stato in modo particolarmente sfacciato. Assomiglia un po’, ma in salsa provinciale, a quel Talleyrand che nella Francia a cavallo dell’Ottocento aveva attraversato tutti gli opposti cambiamenti politici senza sconvolgimenti, tanto disprezzato ma mai toccato nella sua poltrona, e a cui Napoleone disse: “Siete una merda in una calza di seta”.

Ma erano, appunto, altri tempi. Adesso si pensava che per una carriera politica bisogna legarsi, almeno ipocritamente, a un’idea e portarla avanti. Ma forse non è più necessario: basta legarsi a chi comanda. E alla fine, in mezzo a tutti questi carrozzoni istituzionali, qualche posto si trova sempre.

Prof. Emiliano Scappatura