In libreria ‘L’ultimo legionario’ di Aldo Grandi: nel diario di Guido Pallotta a Fiume il sogno di una generazione

l'ultimo legionario

di Giordano Bruno Guerri

Nei ricordi di Giovanni Comisso – ragazzo a Fiume – si legge: “Tu devi sapere che sei giunto in una città pericolosa per i tuoi giovani anni”, dicono alcuni ufficiali a un ragazzo appena arrivato, “qui si fa senza alcun ritegno tutto ciò che si vuole. Le forme di vita più basse e più elevate qui s’alternano non altrimenti che la luce e le tenebre”. Un altro futuro scrittore, Marcello Gallian, diciassettenne di guardia all’Ufficio Informazioni, avverte “un grande odore di perdizione. L’amavo come una donna, quella città, m’era di sensualità vera trovarmici dentro, ormai. Come stessi per farla grossa, importante: esaltato come un bellissimo assassino […]. Ero un fuorilegge, impaziente, senza regola. Volevo far tutto io, una azione sconosciuta e grande, da farmi conoscere subito come eroe”.

Oltre ai giovani fuggiaschi e agli ufficialetti di complemento, affollano le caserme di Fiume reduci abbrutiti dalla trincea, agitatori politici, artistoidi, emissari di “pescicani”, faccendieri e ricettatori. Il generale Sante Ceccherini, comandante delle truppe, definendoli “energumeni”, sottolinea che “non tutti avevano gli identici sentimenti di onestà e di disciplina militare e morale”. E’ vero, a Fiume c’era di tutto, sognatori e delinquenti, avventurieri e mistici della patria, futuri antifascisti e futuri fascisti.

C’era anche Guido Pallotta, che diventerà eroe della mistica fascista poi eroe fascista e semplicemente eroe cadendo in combattimento nel 1940: “La mistica fascista è fede e azione, dedizione assoluta ma nello stesso tempo consapevole.” Pallotta, giovanissimo legionario fiumano, scriverà questo libro, rimasto finora inedito, nel 1923, poco dopo gli eventi, ma in una situazione completamente cambiata: d’Annunzio, sconfitto, si è ritirato a Gardone Riviera, dove si dedicherà quasi esclusivamente all’edificazione del Vittoriale; Mussolini, trionfante dopo la Marcia su Roma e prima del delitto Matteotti, si assesta al potere.

In questo libro Pallotta è già fascista, e si vede fin troppo, ma è proprio questo il punto di maggiore interesse del volume: vedere dal vivo, quasi in contemporanea, come il regime avrebbe fatto dell’”Impresa” una propria impresa, prendendone tutto – riti, miti, modi – tranne lo spirito, che trasformò un colpo di mano nazionalista in una rivoluzione libertaria. Mussolini – dopo avere giocato d’Annunzio con la propria maggiore abilità politica e avere preso accordi segreti con Giolitti – avrebbe saccheggiato tutto di quanto avvenuto a Fiume, tranne il suo documento più importante, l’avanzatissima Carta del Carnaro. Si capisce dunque, da queste pagine di Pallotta, come per molti Fiume abbia potuto essere, specialmente per chi non aveva avuto modo di combattere nella Grande Guerra, un preludio al fascismo.

“Incomincia, dopo questi nove mesi di travagli senza tregua, un nuovo periodo di lotta”, dichiara d’Annunzio nel proclama ai legionari del 12 giugno 1920: “Siate pronti. Vigilanti, silenziosi, spietati, deliberati a tutto io vi voglio: moschetti forbiti, pugnali affilati, bombe manevoli.” Che si preparino alle esercitazioni militari quotidiane, “i nostri giochi mattutini con il fuoco, le nostre gazzarre di scoppi, le nostre ondate carponi sotto il ventaglio crepitante delle mitragliatrici, i nostri duelli occhiuti con le bombe a mano, i nostri abbracci con la polvere”. Le marce tra le colline fiorite e le gare sportive sono sostituite da “giochi d’armi”, campi di battaglia dove i reparti si sfideranno, e i colpi non saranno a salve. Per i militari di professione il ritorno alla lotta rappresenta un diversivo dalla vita di guarnigione, che anche nella Città di Vita sa essere soffocante. Per i giovani volontari quegli addestramenti rappresentano l’iniziazione alla vita guerriera. Appena viene dato l’annuncio, nelle caserme si lanciano ululati di gioia.

Prima di partecipare alle simulazioni, gli imberbi scalmanati dovranno affrontare l’addestramento dei battaglioni d’assalto con gli arditi di professione. Un metodo che forgia nervi e riflessi: duro, al limite delle possibilità fisiche e applicato ancora oggi – nella sostanza – nei corpi speciali di tutto il mondo. Dopo sfiancanti riscaldamenti a corpo libero e di corsa, gli allievi vengono sottoposti a esercizi di crescente difficoltà, anche psicologica; il più celebre e folle è il passaggio al volo di una granata senza sicura. La granata è un simbolo degli arditi assieme al coltello, va padroneggiata, si deve sapere calcolare il raggio d’azione, sopportare il suo boato. Nella testa e nella penna di Gallian risuonano le grida degli istruttori: “Carponi, avanti. Passo passo. Pronti, via. Gettate le bombe. Uno strappo coi denti e il lancio. Se vi rimane in mano, è la morte, ché? non si scherza. Non fate i neonati, non vi divertite. son bombe vere, autentiche. Non sono bicchieri. Non sono scatoline di confetti. Gettate, gettate… Che mi combini, ignorante, salame mio. Vuoi avere la testa portata via? Vuoi rimanere monco? Vediamo come riesci a rimaner monco”. Proprio in un lancio di granate terminerà, 23 anni dopo, la vita di Pallotta.

Con l’aggiunta del culto del Capo, Fiume sembra una fabbrica di eroi, secondo la mistica fascista. Ma, se il primo capo di gabinetto e principale collaboratore di d’Annunzio a Fiume fu Giovanni Giuriati, futuro segretario del Partito Nazionale Fascista, il secondo e più importante capo di gabinetto fu Alceste De Ambris, morto in esilio per antifascismo. Allo stesso modo fu un uscocco – i “pirati” che d’Annunzio incaricava di rapinare le navi con un carico utile – Ettore Muti, altro futuro segretario del PNF. Ma il suo capo, a Fiume, fu una figura oggi dimenticata, nonostante tutto, il ventitreenne aretino Mario Magri, conosciuto da tutti come “Capitano Magro”.

Conclusa l’Impresa, Magri andrà a combattere per la libertà del Rif, regione del Marocco che lottava contro il dominio coloniale spagnolo: una rivolta senza speranza. Tra le montagne il Capitano Magro comandò l’artiglieria dei ribelli contro forze nemiche enormemente superiori, fino all’inevitabile resa. Tornato in Italia, non si rassegnò all’ascesa del fascismo, tentando in tutti i modi di convincere i legionari e il Vate a prendere una posizione netta contro Mussolini. Cercherà anche di mettere in contatto d’Annunzio con Argo Secondari, capo degli Arditi del Popolo, prima formazione militare antifascista. Quando si accosterà ai fuoriusciti in Francia, nemmeno il Comandante riuscirà a proteggerlo dall’arresto e dalla condanna al confino a Ponza, nel 1926.

Il Capitano Magro fu uno degli antifascisti che passarono più anni al confino: ben 17, durante i quali conoscerà molti esponenti della Resistenza e della futura repubblica, tra cui Sandro Pertini. In un passaggio delle sue memorie ricorda, a proposito dei compagni antifascisti, “li ho visti sempre o sopra i libri o con i libri sotto il braccio. Mai nessuno che si sia rivolto a me per avere nozioni militari che sono necessarie in una rivoluzione. Vuol dire che questa guerra rivoluzionaria sarà fatta scagliando i libri”. Qualche confinato lo smentirà, e nel 1944, a Roma, Magri sarà al fianco del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, comandante del Fronte Militare Clandestino; tradito da una delazione, verrà catturato e ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine.1

Ettore Muti e Mario Magri, irriducibili avventurieri dalle molte vite, entrambi freddati da un colpo di pistola: un intreccio che dimostra da solo la molteplicità di storie, di idee, di possibili tragitti etici e politici nati dal caotico crogiolo della rivoluzione fiumana.

Nei primi mesi del ritiro al Vittoriale, d’Annunzio indugiò, in parte per rassegnazione, in parte perché credeva che il potere mussoliniano sarebbe stato passeggero e che si sarebbe presentata la sua occasione. Il 2 novembre 1921 pubblicò su un giornale dei legionari, “La Patria del Popolo”, un messaggio per dire ai seguaci che “Bisogna tollerare, secondare e dominare col pensiero puro, un Governo esperimentale che differisca le elezioni al principio della primavera”. Era un’illusione: l’esperimento fascista si sarebbe evoluto in autoritarismo, dove non c’era posto per altre associazioni e, soprattutto, per altri capi. D’Annunzio avrebbe dovuto rassegnarsi a essere relegato al rango di icona della patria.

Molti erano convinti, invece, che il Poeta potesse costituire un pericolo per il fascismo. Ne era persuaso anche il generale Emilio De Bono, quadrumviro della Marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari. Nell’aprile 1923 la Federazione, alcuni sindacati e l’Associazione Arditi d’Italia si corporarono nell’Unione Spirituale Dannunziana, che aveva l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata alla Carta. Una raffica di perquisizioni e di arresti, tra l’estate e l’autunno, fece naufragare il progetto.

Il Vate aveva già abbandonato al loro destino tutte le associazioni che rimandavano a lui. Durante la crisi Matteotti l’Unione Spirituale Dannunziana si unì all’opposizione dell’Aventino, e tra l’8 e il 10 settembre 1924 indisse a Milano un Consiglio nazionale. In pochi giorni i legionari trasformarono l’Unione Spirituale in un’associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime. Le “leggi fascistissime” del 1925, però, si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante le perquisizioni delle sedi. Tra novembre e dicembre 1925 l’Unione – ultima custode militante del fiumanesimo indipendente – fu travolta dalla repressione. Cinque anni dopo nascerà la Scuola di Mistica Fascista, odiosa a d’Annunzio.

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