Non è ancora il congresso Pd, ma siamo sicuramente alle prove generali. Dopo una lunga tregua interna – insolita per le abitudini della “casa” – il Nazareno è di nuovo in piena fibrillazione, con Base riformista e il “partito dei sindaci” che partono alla carica e l’area vicina a Nicola Zingaretti che replica ricordando il 18% preso dal Pd a guida Matteo Renzi nel 2018. Uno scontro che sembra già senza esclusione di colpi, a dispetto di quella discussione “serena” invocata dal segretario.
Sullo sfondo c’è la possibile sfida di Stefano Bonaccini a Zingaretti, il presidente dell’Emilia Romagna invocato dagli ex renziani come possibile uomo della “reconquista” del partito.
Ieri era stato Dario Nardella, sindaco di Firenze, a invocare “lo spirito dell’Ulivo” di Romano Prodi, paventando il rischio “estinzione” per il Pd. Bonaccini, poi, aveva incalzato su un altro fronte, quello del Covid, unendosi alla richiesta di aprire i ristoranti anche di sera che arriva soprattutto da Matteo Salvini.
Oggi, poi, sono usciti allo scoperto Giorgio Gori e Antonio Decaro. Il sindaco di Bergamo, in realtà, già la scorsa primavera aveva aperto il fronte chiedendo “un nuovo leader”. Offensiva che era poi stata stoppata da Zingaretti grazie al buon risultato delle regionali di settembre. Adesso quel fronte riparte all’attacco, un’area comprende appunto Base riformista (la componente di Guerini e Lotti), ma anche Matteo Orfini e, appunto, molti sindaci di primo piano.
Il Pd e Walter Veltroni
Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci commenta: “Zingaretti ha fatto bene ad aprire al congresso. Ci attende una discussione molto importante sull’identità. Io credo che la nostra sia ancora molto vicina a quella delle origini, del Lingotto intendo”. Il Lingotto di Walter Veltroni, l’atto fondativo del Pd. Il punto è che il segretario, finora, è sembrato disposto ad accettare un congresso sui temi, che non rimetta in discussione la leadership. Una possibilità offerta dallo statuto del partito.
Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, replica duramente a Gori: “Il Pd di cui fantastica oggi Giorgio Gori su La Stampa non ha né ambizioni, né vocazioni particolari, ma il torcicollo. È il Pd del 2018: sconfitto, isolato, ininfluente, al minimo storico dei consensi… Altro che vocazione maggioritaria. Eviterei di ripartire da lì”.
Toni molto simili a quelli di Marco Miccoli, esponente della segreteria molto vicino a ZIngaretti: “Caro Gori, errare è umano perseverare è diabolico. Alla follia del 2018 non si deve tornare. Serve un grande Pd e un credibile sistema di alleanze”.
Perde la pazienza anche Goffredo Bettini: “L’attuale discussione sull’alleanza tra Pd e 5S riferita al futuro, ha un sapore, per me, difficilmente sopportabile, di posizionamento interno al Pd, in vista del congresso”. Per Bettini “è evidente che ci sono diverse opinioni nel partito. E, francamente, sento l’urgenza di scegliere una strada chiara”, fermo restando che “la vocazione maggioritaria del Pd non deve portarci ad una boriosa autosufficienza. Come è stato in occasione della sonora sconfitta del 2018″. L’idea è quella di giocare d’anticipo e vedere se il fronte dei sindaci e di Base riformista è già in grado di sferrare la sfida a Zingaretti.
“L’unico nome possibile è quello di Bonaccini”, ragionavano in Base riformista negli ultimi giorni. “Ma dobbiamo vedere se decide di candidarsi”. Servirebbe un po di tempo, non a caso l’idea degli “sfidanti” è quella di un congresso in autunno, o inizio anno. Ma Bettini sembra suggerire un’accelerazione, e con i contagi in ripresa e un probabile rinvio persino delle amministrative l’idea di un congresso sui temi potrebbe prevalere. La conta sarà in assemblea, a inizio marzo. Lì si capirà se prevarrà la linea degli ex renziani di andare ad un congresso vero e proprio, con una conta sul segretario, o se ci si limiterà a fare il punto sulla linea politica. (askanews)