Oligopolizzare il privato e privatizzare il pubblico

di Giuseppe Matranga – – “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” era solito dire una vecchia volpe democristiana come Giulio Andreotti.
Noi siamo qui per pensar male, raccogliere gli indizi e supporre nefandezze, commettiamo peccato, ma spesso ci azzecchiamo.

Se due indizi fanno un sospetto e tre fanno una prova, qui stiamo proprio a esagerare, perché essi sono infiniti e reiterati nel tempo e portano tutti alla medesima conclusione “Oligopolizzare il privato e privatizzare il pubblico”, questa sembra la linea guida di fondo della nostra classe dirigente a tutti i livelli e da qualsiasi schieramento di appartenenza.

I recenti avvenimenti susseguitisi negli ultimi mesi, ovvero dalla scoppio della crisi da coronavirus, hanno comportato forti modifiche e mutazioni, veri e propri shock alla nostra economia nazionale, che ha visto paralizzati per lunghe settimane interi comparti industriali e commerciali; il processo ahinoi è ancora in corso e non fa presagire alcun ottimismo nella ristabilizzazione delle normali condizioni di mercato.

Non essendo di nostra competenza la materia virologica, epidemiologica e scientifica in questi ambiti, non ci pronunceremo sulla valutazione della esigenza e sulla necessarietà di tali misure ma ci limitiamo a commentarne gli effetti.

Il lockdown, nelle sue varie forme e misure, ha prodotto e continua a produrre forti shock simmetrici (sia dal lato dell’offerta che della domanda), causando gravi problemi economici e finanziari per svariate categorie d’impresa e lanciando l’intero paese in una profonda recessione economica ad oggi stimata in un intorno di -10% PIL annuo rispetto al 2019.

Le misure intraprese dal governo nel corso degli scorsi mesi, in origine minimizzando ottusamente l’entità del problema e successivamente attraverso la cattiva gestione dell’ingente quantità di fondi reperiti nei mercati finanziari, ha di fatto solo minimamente ammortizzato l’effetto del lockdown, portando specialmente a soffrire tutto il segmento della piccola e media impresa, ovvero quella fascia composta dalla singola partita iva (il cosiddetto imprenditore di se stesso),  fino a tutte le attività che coinvolgono meno di 250 occupati; a tal proposito ci duole ricordare che l’ Italia è per eccellenza, e tutta la letteratura lo conferma, il paese maggiormente caratterizzato dalla frammentazione aziendale tra tutti i paesi sviluppati.

Volendo fare cenno più nel dettaglio l’entità di tale frammentazione possiamo menzionare alcuni dati:

  • il valore aggiunto del comparto PMI (piccole e medie imprese) contribuisce per il 12,5 del PIL;
  • le microimprese (meno di 10 addetti) contribuiscono per il 30,4 % della produzione di valore complessiva;
  • le piccole e medie imprese contribuiscono per il 38,7% della produzione,
  • le grandi imprese (più di 250 dipendenti o più di 50 mln di euro di fatturato) producono solo il 30,9% del valore aggiunto totale.

*rapporto Cerved 2018

A totale differenza della realtà italiana negli altri paesi economicamente sviluppati, con cui ha senso confrontarci, le proporzioni sono del tutto inverse in favore delle grandi aziende, che coinvolgono la grande maggioranza della popolazione attiva, suddividendola principalmente in macro-classi composte da impiegati ed operai che si contrappongono nettamente per dimensioni a quelle dei liberi professionisti e degli imprenditori.

L’oligopolizzazione del mercato può facilmente definirsi come il processo di assottigliamento e distruzione del substrato composto dalle piccole aziende, tra le quali vanno intese anche la panetteria, la piccola bottega o il negozio di abbigliamento, le stesse che hanno permesso al nostro paese di svilupparsi nei decenni passati, nonché quelle che coinvolgono la maggioranza dei lavoratori italiani.

Annientando una larga fetta di piccole imprese si genererà una forte e diffusa disoccupazione, già prevista dagli istituti di statistica tra 2,8 e 4 milioni nell’arco dei prossimi mesi , ovvero all’incirca un raddoppio della quota di disoccupazione pre-covid19; ciò nell’arco del breve e medio periodo produrrà  un aumento dell’emigrazione in uscita, coinvolgendo specialmente le fasce più specializzate della popolazione (fuga dei cervelli), inoltre abbasserà notevolmente il potere contrattuale dei lavoratori rendendoli più propensi e disponibili ad accettare offerte sottoretribuite sul piano economico e perciò accelerando il già in corso fenomeno della “diminuzione del saggio di salario”; come se non bastasse il problema interno, le politiche di facile accoglienza all’immigrazione non fanno altro che sollecitare ancor più l’ingresso di potenziale manodopera a basso costo, indi premere maggiormente su una ferita già aperta  come quella del mercato del lavoro.

Se non vuol credersi alla versione delle strane coincidenze difficilmente prevedibili, balza all’occhio l’idea che tale processo possa essere un vero e proprio obiettivo da parte della nostra classe dirigente, obiettivo descrivibile in pochi semplici passaggi, uno conseguente all’altro: tra i prossimi mesi e i prossimi due anni si genererà un  “deserto economico” fatti di milioni di disoccupati, saracinesche abbassate, edifici abbandonati; ciò comporterà la deflazione salariale, l’abbassamento del valore immobiliare degli edifici residenziali ma anche di quelli industriali, a cui si aggiungono quelli dei grandi uffici largamente abbandonati a seguito dell’implementazione dello smart working, il nostro Paese si renderà perciò facilmente depredabile da parte di grandi investitori internazionali, gruppi finanziari che avranno l’opportunità di acquisire i nostri assets strategici e fondamentali a basso costo.

Se vi sembra uno scenario pessimistico, sappiate che tale processo era già in corso da prima  in Italia seppur a velocità meno sostenuta, e se volete invece un esempio drastico di una realtà a noi vicina e amica eccovi presentata “la Grecia” , che forse sarebbe il caso di appellare nuovamente magna grecia, non tanto per la sua grandezza quanto per il fatto che “ se la sono magnata nel giro di pochi mesi”.

Privatizzazione del Pubblico significa andare ad estraniare il ruolo dello Stato quale fornitore di servizi pubblici in favore di aziende private, il tutto in virtù di una becera quanto falsa narrativa liberista quale quella che “il libero mercato favorisce la concorrenza e perciò va a vantaggio  dei consumatori”. Vi siete mai posti la questione di quanto ciò potesse essere vero? Come è possibile che le forniture energetiche siano sempre costantemente rincarate nonostante la loro liberalizzazione, non ha funzionato la concorrenza nonostante ci siano ormai svariate aziende fornitrici?

Forse poche volte in merito si considera che proprio riguardo all’energia, qualsiasi sia il nostro fornitore di energia, il cavo elettrico che essa porta nelle nostre case è sempre e solo uno, così come tutta la rete dalla quale essa viene trasportata, ma come se non bastasse, vi siete chiesti chi ha costruito tale rete elettrica? Non sarà forse stata l’Enel grazie a ingenti investimenti pubblici nel corso di svariati decenni?

È così che stiamo definendo i cosiddetti monopoli naturali, categoria alla quale possiamo aggiungere la rete stradale e autostradale, quella ferroviaria, la rete idrica e del gas, internet e altri svariati esempi.

Viene meno così la logica di Stato quale prestatore di servizi, che può chiederci un contributo monetario sotto forma di recupero dei costi sostenuti per l’erogazione, e viene sostituita da quella che prevede il dispensamento  di remunerazioni e perciò di guadagni tra aziende private le quali approfittano di infrastrutture pubbliche e non garantiscono neppure una fornitura egualitaria tra i cittadini, che divengono così esclusivamente consumatori/clienti.

Per decenni tali processi sono stati portati avanti da ideologi di stampo liberale a cominciare dall’economista austriaco Friedrich von Hayek, passando poi a una versione più moderna quale quella della cosiddetta scuola di Boston che istituisce di fatto il pensiero neoliberista.

Tali ideologie sembra vengano accolte tout cour indistintamente da tutti gli schieramenti politici italiani e conseguentemente dall’intera classe dirigente senza che alcuna alternativa venga presa in considerazione, e così nonostante esso sia un paradosso da destra a sinistra si parla di “rivoluzione liberale”.

Dimostrazioni di tali processi sono ormai annosi e cominciano sin dalla privatizzazione del settore bancario, dalla privatizzazione dell’ENI, la dismissione dell’IRI, la privatizzazione della compagnia telefonica, delle autostrade, etc., resta ancora da chiarire quali siano stati i vantaggi finora apportati, o forse la domanda andrebbe posta diversamente e dovremmo bensì chiederci “a chi abbia portato vantaggi”.

Problemi analoghi si verificano quando alcune di tali aziende monopolistiche o oligopolistiche presentino dei problemi finanziari, e sia lo Stato, in questo caso in veste paternalistica, ad elargire fondi di danaro pubblico per risollevarne le sorti, andando a fomentare quel pensiero controcorrente che si riassume in “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”.

Sembra che si vada sempre più verso un proseguo accelerato di tale percorso privatistico, in settori fondamentali quali la sanità, l’istruzione, i beni demaniali, i siti monumentali e i beni artistici.

Tutti gli avvenimenti sopramenzionati, nonché quelli ipotizzati e non ancora del tutto verificatisi in Italia, ci riportano anch’essi alle vicende della vicina magna grecia: in merito, basta poco per scoprire quanto nel paese ellenico, il luogo in cui nacque la nostra civiltà, nonché la democrazia, a seguito della crisi finanziaria – indotta a nostro parere – siano stati ceduti a multinazionali private gran parte del patrimonio artistico, degli assets strategici quali porti e aeroporti, intere spiagge; molti servizi pubblici essenziali siano divenuti in gran parte a gestione privata, quali l’università, l’acqua, la sanità; i prezzi di tali servizi siano lievitati notevolmente e di contro si siano assottigliati grandemente gli stipendi e le pensioni, oltre a questo, resta da sottolineare l’emigrazione di circa 500.000 abitanti, pari al 4% dell’intera popolazione ellenica di cui la metà giovani laureati, negli anni successivi alla crisi finanziaria.

Un film purtroppo già visto.

Ci aspettiamo adesso nel prossimo futuro una prosecuzione accelerativa di tali processi autodistruttivi, contornata da una narrativa a reti unificate che descrive lo Stato come un ente sempre più indebitato, corrotto, sprecone, spendaccione, incapace di allocare correttamente le risorse, al fine di giustificarne la totale dismissione  e la successiva trasformazione del suo popolo in meri consumatori inerti/operai sottopagati simil-servi.

Di fatto sta per restaurarsi una sorta di rivisitato ancien regime in stile finanziario, in cui non saranno i nobili ad ergersi al di sopra della società bensì una classe di borghesi miliardari, rentiers, uomini di potere che conteranno diritti di gran lunga superiori alla gente comune; una realtà in cui tutti saranno egualmente diseguali dai pochi che reggono le fila del gioco, ma non saranno minimamente in gradi di giudicarne né i protagonisti né le azioni.

“per la libertà e affinché siamo popolo pensante e non gregge inerme”

Giuseppe Matranga