Ragazzina prigioniera in comunità, operatori rifiutano terapia farmacologica

RAGAZZINA PRIGIONIERA DELLA COMUNITÀ PAOLO VI DI ALESSANDRIA. Dopo il blitz per riprendersela, i genitori chiedono la terapia farmacologica, ma gli operatori si rifiutano.
Avvocato Miraglia: “Se alla ragazzina succede qualcosa, riterremo responsabili la comunità, i servizi sociali e il tribunale dei minorenni.

PAVIA (11 Giugno 2020). La settimana scorsa è stata “liberata” con un blitz, dai suoi genitori, che sono andati a riprenderla alla comunità Paolo VI di Casalnoceto, in provincia di Alessandria, dove il Tribunale dei minorenni di Milano l’aveva confinata due anni fa. Anni nei quali una ragazzina diciassettenne di Pavia veniva imbottita di farmaci, che la rendevano incapace di parlare e di pensare, privandola persino del controllo dei propri bisogni fisiologici.

I genitori, all’ennesima videochiamata in cui l’avevano vista ridotta a un automa, sono corsi a riprenderla; ma da allora, nonostante abbiano chiesto alla comunità il piano terapeutico, gli operatori si sono rifiutati di consegnarlo. Lungi dal costringerla ad assumere quel bombardamento massiccio di medicinali, sono consapevoli che interrompere bruscamente la terapia potrebbe causare più danni che benefici. La comunità, quindi, non vuole consegnare alla famiglia il piano terapeutico e il medico curante, anche volendo, non può prescriverle alcun tipo di farmaco: i genitori non hanno più la responsabilità genitoriale e solo i Servivi sociali possono decidere per questa ragazzina.

«Siamo scandalizzati dal comportamento dei Servizi sociali e della comunità terapeutica» dichiara l’avvocato Miraglia, legale della famiglia, «che volontariamente stanno facendo del male a questa ragazzina, causandole dei problemi. Se dovesse capitarle qualcosa, riterremo responsabili sia i Servizi sociali di Pavia che la comunità. E anche il tribunale dei minorenni di Milano, che sta a guardare senza intervenire in un caso così grave: quando c’è da togliere un bambino a una famiglia è rapidissimo, ma non lo è altrettanto, a quanto pare, quando c’è da assumere delle decisioni importanti, di importanza vitale».

La famiglia, intanto, ha sporto querela nei confronti della comunità dopo gli agghiaccianti racconti delle vessazioni subite dalla figlia, resi ai sanitari del pronto soccorso dove la mamma l’ha portata appena andata a riprenderla: un operatore l’aveva strattonata causandole un ematoma a un braccio ma, fatti ancor più gravi, uno dei ragazzi ospiti della struttura le aveva spento una sigaretta addosso, un altro le aveva provocato dei tagli. L

a ragazzina, ormai allo stremo, aveva annunciato l’intenzione di farla finita: da qui il tempestivo intervento dei famigliari, pur contro la disposizione del Tribunale che l’aveva appunto collocata in comunità due anni fa. Due anni nei quali è rimasta senza un progetto di recupero, abbandonata a se stessa, imbottita di farmaci e basta. «Questa reticenza della comunità a fornire il piano terapeutico è davvero sospetta» prosegue l’avvocato Miraglia. «Cosa nascondono, cose le hanno somministrato? Forse è il caso che nella struttura intervengano i Nas».

Avv. Francesco Miraglia