Di Francesco Carraro – Da qualche settimana, in beata solitudine, il quotidiano LA VERITA’ è impegnato in una operazione di discovery degli scambi di messaggi tra autorevolissimi esponenti della magistratura. Ne emerge un impressionante, e non certo commendevole, scenario di intrecci, ammanicamenti, spintarelle del tutto simile, se non sovrapponibile, a quello di cui abbiamo avuto prova in altre stagioni riguardo ai politici. Ma l’aspetto più squallido della vicenda non concerne le manovre occulte, i piaceri sottobanco, il condizionamento verso altri poteri dello Stato.
Anche se è agghiacciante leggere, per esempio, di una deliberata intenzione di “intervenire” contro Salvini per la questione del blocco dei porti. E ciò, nonostante la dichiarata consapevolezza, manifestata in certi messaggi da parte dello stesso mondo delle toghe, della natura politica, legittima e non criminale delle azioni di un Ministro della Repubblica a difesa dei confini.
Quello che più scandalizza in quanto sta emergendo è compendiabile in due parole: “silenzio” e “indipendenza”. Il silenzio assordante dei media mainstream e l’indipendenza vilipesa dell’ordine giudiziario. I giornaloni sono stati sempre – dicesi sempre – sostenitori di una sola linea a proposito delle intercettazioni: pubblicarle sempre e pubblicarle tutte. A dispetto della loro rilevanza penale e anche se andavano a rovinare la vita di chiunque, pur estraneo alle inchieste. A maggior ragione se “chiunque” era un avversario politico, e cioè inviso alla Perfetta Macchina del Consenso di cui la Grande Stampa costituisce una rondella essenziale. Oggi, invece, no.
Oggi le intercettazioni non interessano più. Nel momento in cui vanno a colpire la magistratura, come un treno ad alta velocità, i media di regime scoprono la virtù di un pudico silenzio-dissenso. Il che fa sospettare che tra chi informa e chi indaga, o giudica, nel nostro Paese ci sia un tacito accordo di non belligeranza. Veniamo ora all’altra parola magica: “indipendenza”. L’indipendenza della magistratura: valore supremo (e giusto) cui – da tangentopoli in poi – si sono sempre richiamati i sostenitori di una sorta di superiorità morale, di primazia etica, della classe giudiziaria rispetto agli altri poteri (va da sé, corrotti) della Nazione.
Ebbene, c’è una costante in tutti i messaggi pubblicati: una frenetica, talora ingenua (se non addirittura goffa), ansia di ottenere “posti” a favore di appartenenti a un “gruppo” e a discapito degli esponenti di un altro “gruppo”. È tutto un ribollire di soddisfazione o di frustrazione nell’apprendere che “noi” abbiamo battuto “loro” o che “loro” hanno fregato “noi”: nella corsa a una Procura o per un posto al CSM. In pratica, la negazione stessa del valore di cui sopra.
Perché è vero che il principio supremo cui dovrebbe ispirarsi un giudice è l’indipendenza; l’unico in grado di garantire ai sospettati, e persino ai condannati, di non esserlo stato (sospettati e condannati, appunto) se non nel supremo interesse e all’esclusivo servizio della Giustizia. Ma se i detentori del tremendo potere di dare o togliere la libertà agiscono secondo logiche settarie e di clan, l’indipendenza muore. O si è indipendenti da tutto e da tutti o non lo si è. Indipendenza, in certi ambiti, non può (non dovrebbe mai) fare rima con appartenenza. E invece accade. Soprattutto in tempi in cui informazione fa rima con manipolazione.