Psicosi antirazzista, Toni Capuozzo “Il gesto sbagliato di Mattarella”

di Alessandro Giorgiutti

Un suo post su Facebook, qualche giorno fa, ha avuto l’ effetto liberatorio che hanno le parole di buon senso pronunciate da qualcuno di autorevole in tempi di generale conformismo. In quelle poche righe Toni Capuozzo, giornalista di lungo corso, inviato di guerra, non è stato tenero verso una classe politica che, davanti alla ragionevole paura del contagio da coronavirus e alla richiesta di misure preventive drastiche come la quarantena per chi rientrava dalla Cina, ha pensato «che la correttezza politica (visita a scuole multietniche, ristoranti cinesi ecc.) fosse la cosa più importante, che il nemico fosse il razzismo».

Quelli che mettevano in guardia dalla psicosi contro il nemico cinese erano in realtà affetti da psicosi antirazzista?
«È il dogma della correttezza politica, una cosa molto americana: molti dei film che hanno visto e dei libri che hanno letto quelli della mia generazione oggi non potrebbero essere più girati né scritti. Non rimpiango il tempo in cui si poteva fumare al cinema, ma ricordo bene che nella mia infanzia, quando i soprannomi erano brutali e se uno era zoppo o gobbo lo si chiamava zoppo o gobbo senza troppi complimenti, ci si alzava in piedi se in autobus entrava una persona anziana o una donna incinta. Eravamo brutali nel linguaggio, ma nella pratica non lo eravamo affatto. Adesso paradossalmente è vero il contrario: c’ è un’ estrema correttezza formale, e poi nei fatti la cafoneria abbonda».

C’ è un episodio che ha giudicato particolarmente fuori luogo? La visita del presidente Mattarella in una classe con bambini cinesi dopo che i governatori leghisti avevano proposto la quarantena per gli scolari di rientro dalla Cina?
«Proposta saggia, peraltro. E sì, il gesto del presidente della Repubblica ha legittimato tutti quanti ad abbassare la guardia, a non comportarsi con la dovuta cautela. Quella sua visita è stato un gesto simbolico e anche una guida per l’ azione, non avrebbe portato i fotografi con sé altrimenti. Così se un collega rientrato dalla Cina mi invita a una cena, io mi sento rassicurato dal comportamento del mio presidente e penso: se non si preoccupa lui, del fatto che qualcuno di quei bambini poteva essere appena tornato dal capodanno cinese, perché dovrei preoccuparmi io?».

E le iniziative di solidarietà alla comunità cinese?
«A Milano c’ è stata perfino una “notte delle bacchette” per testimoniare vicinanza ai ristoratori cinesi. In un Paese che se ne fotte dei piccoli locali che chiudono, se ne fotte di calzolai e artigiani che spariscono, per dimostrare di avere un cuore sensibile eri tenuto a mangiare nei ristoranti cinesi, che peraltro non mi sembrano un pezzo essenziale della nostra storia…
Anche questo, sotto la maschera dell’ antirazzismo, è stato un invito a tenere la guardia abbassata: un atto di grande leggerezza, e la colpa non è solo del governo ma anche di una certa cultura».

Ma questo scambiare la legittima paura con il razzismo non è controproducente? Se per ogni cosa mi sento dare del razzista alla fine, per reazione ed esasperazione, finirò per rivendicarla, quell’ etichetta.
«C’ è una cosa che ho imparato girando la ex Jugoslavia. Tutti i ponti erano chiamati “della fratellanza e dell’ unità”. Ecco, i “fratelli uniti” alla fine si sono accoltellati a vicenda e quei ponti sono stati abbattuti. Se il bene diventa una predica, una lezione calata dall’ alto, rischia di alimentare i sentimenti meno nobili, che diventano un brontolìo di pancia sordo, che non viene a galla e non può esprimersi, e poi scoppia all’ improvviso. La mia generazione è cresciuta alle elementari con la retorica dei Cesare Battisti, dei Fabio Filzi, del Piave che mormorava. E tutti quanti siamo poi cresciuti facendo la naja malvolentieri e considerando la patria una brutta cosa. Le prediche dall’ alto non migliorano le persone. Siamo al punto che devo per forza abbracciare un cinese per dimostrare che non sono razzista: un’ esibizione di bontà che rischia di rovesciarsi nel suo contrario».

Che poi questi atti di razzismo anticinese non sono stati poi così numerosi…
«Infatti. Io in questi giorni non sono andato a Chinatown né nei ristoranti cinesi. Ho pensato: perché devo andare a cercarmela? Ma questo non significa nutrire sentimenti negativi verso un popolo, avrei evitato allo stesso modo il ristorante di un americano appena rientrato da Pechino. È una semplice precauzione, non razzismo. Invece qui, per non sembrare razzisti, siamo arrivati all’ assurdo di aver messo in quarantena poche decine di italiani che rientravano dalla Cina mentre centinaia se non migliaia di cinesi di ritorno dal capodanno rientravano indisturbati».

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