Moriranno pazzi, perché non sapendo come liberarsi di CasaPound avevano mandato avanti Facebook. Ma gli è andata male. La legge sta con la Tartaruga e non con Zuckerberg (nella foto con la maglietta adatta all’occasione). E quindi si può tornare a cliccare “mi piace” su una pagina tanto indigesta ai nemici della libertà di opinione. Se si registrassero i boati, la rete ieri era abbastanza tumultuosa. A sinistra i Fianistei che lacrimavano attoniti con tante di quelle imprecazioni che il buon Bergoglio dovrà faticare assai a non trasformarle in peccati mortali. Dall’altra parte, la gioia di chi è palesemente stufo di una censura a senso unico.
Libertà. Freedom. Liberté. Freiheit. Libertät. Sbizzarriamoci come vogliamo, ma è una parola con le sue varianti in tantissime lingue. Libertà. Potrà adottarla anche CasaPound, che è pure facilmente traducibile.
E’ il tribunale di Roma a stabilire un principio che sembrava evidente solo a destra: la libertà di opinione è un valore che non puoi negare solo perché lo decidi tu. E se un social network delle dimensioni di Facebook comprime quel diritto addirittura nei confronti di un’associazione che è stata presente in diverse competizioni elettorali, la cancellazione di una pagina diventa abnorme.
Certo, poi ci sarà il giudizio nel merito, perché finora è stato accolto il ricorso cautelare di CasaPound contro l’incredibile decisione di Facebook, ma sicuramente siamo di fronte ad una svolta. Che non farà piacere ai centri sociali che affollano le redazioni. Ai tastieristi da contumelia che straboccano in un Parlamento dove hanno poco da fare. A quelle sardine figlie di buoni uomini e di buone donne. Oppure a chi si nutre di pane e antifascismo persino sotto l’Albero di Natale.
CasaPound e il diritto negato da Facebook – Quasi tre miliardi di persone nel pianeta scrivono ogni giorno su un social prepotente le loro opinioni. Precluderle ad un movimento che ha raccolto trecentodiecimila voti alle elezioni politiche in Italia sarebbe una bestemmia. Non sono milioni, ma neppure un’inezia. Ha scritto il giudice nella sentenza: quel soggetto politico sarebbe di fatto “escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento”.
Ma ancora più importante è un altro passaggio, che troppo spesso si sottovaluta. L’iscritto di un partito, di un movimento, di un’associazione, ha un comportamento che la magistratura vuole sanzionare? Oppure la pubblica opinione contesta? Che c’entra il suo partito, il suo movimento, la sua associazione? “E’ appena il caso di osservare che non è possibile sostenere che la responsabilità (sotto il profilo civilistico) di eventi e di comportamenti (anche) penalmente illeciti da parte di aderenti all’associazione possa ricadere in modo automatico sull’Associazione stessa”, scrive ancora il tribunale. Non può, per questo motivo, “essere interdetta la libera espressione del pensiero politico su una piattaforma così rilevante come quella di Facebook“.
Chi ha brindato alla cancellazione dei profili, lo ha fatto troppo presto. Da domani si pensi di più – se si vuole – a contrastare nel merito le idee che non si condividono, senza pretese censorie. Che non appartengono al dibattito democratico. Lo ha spiegato per sentenza chi è chiamato dalla Costituzione ad applicare le leggi.
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