di Marcello Veneziani
La nausea per un mondo “corretto”. Passano gli anni, cambiano i governi, insorgono i popoli. Ma da Hollywood a Sanremo, dalla tv ai premi letterari, dai fatti di cronaca alla storia adattata al presente, la dominazione prosegue incurante della vita, della verità e della realtà. Il copione si ripete, all’infinito.
Serpeggia da tempo la nausea verso quella cappa asfissiante, a volte la parodia prende il posto del canone. Lo deplorano in tanti, il politically correct, persino i suoi agenti, quelli che somministrano ogni giorno i suoi sacramenti; e questo è il segno che invecchia, scricchiola, si fossilizza. Ma alla fine, la dominazione resta e il vero mistero a questo punto è l’assenza di alternative: la rabbia c’è ma non ci sono mai opzioni diverse. Eppure basta cercarle. Nel cinema ad esempio quest’anno sono usciti almeno tre film meritevoli di Oscar: dall’est è arrivato Cold war, ma toccava seppur di striscio il tema del comunismo. Dagli States è arrivato il solito gran film di Clint Eastwood, Il corriere (in passato Clint era persino premiato, ma ora gli Oscar sono pura catechesi nero-omo-razza). E in Italia è venuto fuori un gran film di cui abbiamo già scritto, Il primo Re, sulla fondazione di Roma. Ma gli oscar vanno solo al nero, razzismo-nazismo-negritudine, più omosex e me-too. E ricadiamo nel politically correct.
Ma cos’è poi il Politically correct, proviamo a darne una definizione e un contenuto preciso. Per cominciare, il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica.
Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l’avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell’estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all’ossessione su due-tre temi.
Dove nasce il politically correct? La prima risposta è in America, laboratorio globale del futuro e capitale mondiale dell’Impero dei segni. È famoso il saggio di Robert Hughes (un australiano, peraltro), La cultura del piagnisteo (Adelphi), sul bigottismo progressista. Prima di lui Tom Wolfe denunciò già nel 1970 l’artefice del politically correct, il radical chic. Un testo importante sul vizio progressista è “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom. E potremmo citarne altri. Ma non si esaurisce negli States la matrice del politically correct. Qualcosa del genere ha serpeggiato nel nord Europa, nelle socialdemocrazie scandinave, elette per decenni a modello progressista di emancipazione. La Svezia è la sua vera patria, sostiene Jonathan Friedman in Politicamente corretto (ed.Meltemi). L’autore è stato toccato da vicino, perché sua moglie, ricercatrice, fu accusata di razzismo solo perché ha documentato, dati alla mano e analisi rigorose, che in Svezia è stato un fallimento il multiculturalismo e la politica di accoglienza dell’immigrazione.
Ma il P.C. non nasce in un luogo bensì in un’epoca: nasce sulle ceneri del ’68, diventa il catechismo adulto di quelli che da ragazzi furono iconoclasti. Dopo aver processato l’ipocrisia del linguaggio cristiano-borghese e autoritario-patriottardo, gli ex-sessantottini adottarono quel nuovo lessico ipocrita e quel galateo manierista. Dal perbenismo al perbuonismo.
Il politically correct nasce quando finisce l’effetto del marxismo, tramonta l’idea di rivoluzione, si perdono i riferimenti mondiali del comunismo. Lo spirito liberal e radical rifluiscono nel codice progressista globale. Si passa dall’Intellettuale Collettivo al Demente Collettivo, il conformista dai riflessi condizionati; il comunista si fa luogocomunista, giudica per stereotipi prefabbricati, riscrive la storia, il pensiero e i sentimenti ad usum cretini. C’è una ricca letteratura che denuncia il politically correct: l’ultimo è Politicamente corretto di Eugenio Capozzi (ed. Marsilio), che lo ritiene l’erede di tutti i progressismi. Per passare la censura del politically correct è necessaria la presenza di almeno uno o più ingredienti d’obbligo di ogni narrazione, reportage o fiction: il nero, il migrante, il rom, l’omosessuale, la femminista, il disabile e l’ebreo. Sempre vittime o eroi, comunque personaggi positivi per definizione in ogni storia o trama.
La ditta del politicamente corretto fabbrica pregiudizi seriali, in dosi liofilizzate; la loro applicazione esime dal ragionare, risparmia la fatica del giudizio critico. E infonde a chi lo usa una sensazione di benessere etico, una presunzione di superiorità sugli altri. Quando ci libereremo da questa cappa, da questa cupola ideologico-mafiosa? E qui il problema si sposta nell’altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture e linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto, urge il progetto.
MV, La Verità 28 febbraio 2019