Unione africana contro Unione europea. I 55 Paesi, in vista dei negoziati con Bruxelles, starebbero elaborando una posizione comune contraria alle cosiddette piattaforme di sbarco. Si tratta di centri di identificazione che l’Unione europea vorrebbe mettere su e gestire negli Stati africani dai quali partono la gran parte dei migranti. Il proposito di Bruxelles – scoraggiare le tratte clandestine ed evitare morti in mare – si scontra con l’opposizione dei Paesi africani, che accusano gli europei di voler creare, de facto, dei centri di detenzione per selezionare “i migliori” richiedenti asilo.
Tra i politici europei che si sono fatti portatori di tale proposta c’è anche il ministro degli Interni Matteo Salvini, che ha chiesto l’allestimento dei centri in Niger, Ciad, Mali e Sudan. All’opposizione già espressa da parte dei Paesi nordafricani, si aggiunge ora quella dei diretti interessati della regione sahariana del Sahel e degli altri Stati del continente.
Nella bozza di posizione comune tra i 55 Paesi parte dell’Unione africana si leggono parole di fuoco contro la proposta dell’Ue. Il documento, pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian, boccia le piattaforme di sbarco pensate dagli Stati Ue per gestire le richieste d’asilo perché sarebbero “in violazione del diritto internazionale, del diritto dell’Ue e delle disposizioni giuridiche dell’Unione africana per quanto riguarda i rifugiati e gli sfollati”.
No al mercato moderno degli schiavi
Un funzionario dell’Unione africana sottolinea i timori dei Governi africani che “questo piano comporti l’instaurazione di una specie di mercato moderno degli schiavi, con i ‘migliori’ africani che vengono ammessi in Europa e gli altri rispediti indietro”.
“L’allestimento di piattaforme di sbarco – prosegue il documento – equivarrebbe alla creazione di centri di detenzione, dove i diritti fondamentali dei migranti africani verrebbero violati”. Si teme, insomma, che vengano replicati in tutto il continente quei centri già stabiliti in Libia, ma gestiti dalle forze dell’ordine locali, dove sono detenute oltre 20mila persone in condizioni definite disumane da molte organizzazioni governative e associazioni in difesa dei diritti umani.