Nei diversi contesti del sud del mondo, prima dell’avvento del colonialismo, esistevano delle civiltà che ne permettevano la sopravvivenza e lo sviluppo.
Uno dei dubbi più insistenti, emerso già al tempo della colonizzazione è quello del “grado di civiltà” il cui concetto pone il problema della questione antropologica dell’esistenza di una o di più civiltà e al connesso problema filosofico dell’assolutezza (affermata anche da Weber quando scrive: “gli ideali supremi che ci muovono nella maniera più potente si sono formati in tutte le età solo nella lotta con altri ideali”) o relatività dei valori (secondo invece P.K. Feyerabend).
E’ evidente che se si parla di civiltà al singolare si ammettono valori assoluti e conseguentemente si afferma la possibilità di giudicare maggiore o minore la civiltà di un popolo; se invece si parla di civiltà al plurale, si ammettono valori relativi e si nega la possibilità di stabilire gerarchie.
Secondo M. de Montagne, grande moralista francese del XVI sec., si usa chiamare barbarie tutto quello che non rientra nei nostri usi e costumi: “sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui stiamo”.
La loro diversità culturale, etica ed economica non poteva e non può essere considerata come una prova della loro inciviltà, dal momento che l’imperialismo occidentale ha di fatto determinato una crisi civile, culturale, economica e sociale, che si traduce in fame, povertà, conflittualità ed alto tasso di mortalità, soprattutto infantile, senza precedenti.
Può sembrare questione secondaria in relazione alle problematiche che attanagliano il sud del mondo ed i PVS (Paesi in Via di Sviluppo) ma non lo è affatto.
Con la globalizzazione le loro rivendicazioni a livello internazionale e la messa in discussione dei rapporti nord sud con conseguente richiesta di un nuovo ordine economico internazionale sono completamente uscite dall’agenda politica ed è nell’estate del 1989, quando stavano precipitando gli eventi nell’Est dell’Europa, che viene dato un colpo ferale a tutto ciò.
Ad Harvard, sulla rivista “National Interest” apparve un articolo intitolato “The End of History”; ne è autore Francis Fukuyama, ex funzionario del Dipartimento di Stato di G.Bush. La tesi sostenuta è schematicamente questa: “La universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come forma finale del governo umano, costituisce il punto terminale dell’evoluzione ideologica dell’umanità“.
Il liberalismo non avrebbe più dunque davanti a sè un’alternativa teorica o un antagonista credibile e quindi la sua vittoria, ancorché non del tutto conseguita nel mondo reale, può considerarsi ottenuta nell’ambito delle idee e delle coscienze: “Alla fine della storia – dice Fukuyama – non è necessario che tutte le società si trasformino in società liberali riuscite, ma è sufficiente che esse rinuncino alla pretesa di rappresentare forme diverse e superiori dell’organizzazione umana“.
Conclude aggiungendo che l’idea liberale tende a diventare su scala mondiale un fatto psicologicamente compiuto. L’immagine della fine della storia è ripresa dal commento di Kafeve alla fenomenologia di Hegel, dove si afferma che la storia è finita a Jena nel 1806 quando Napoleone ha sconfitto la Prussia determinando una nuova situazione universalmente irreversibile.
In un tale tipo di società, Fukuyama ritiene che si sia già giunti, e che niente possa più ostacolarne o ritardarne l’avvento; e manifesta il suo con- vincimento che il desiderio di avere successo nella società dei consumi, condurrà a breve tutti i popoli al liberalismo economico e politico, mentre immagina che il sistema occidentale sia estensibile e riproducibile all’infinito.
Quindi i fenomeni di nazionalismo risorgente, il fondamentalismo islamico, la dialettica Nord-Sud, una volta compiutosi il processo di omogeneizzazione dell’emisfero nord, sembrano poco importanti a Fukuyama; si tratta infatti di fenomeni che possono riguardare popoli e regioni ancora impantanati nella storia e che non contribuiscono alla evoluzione ideologica del mondo: in ogni caso “non è certamente in funzione di qualche costume africano che si organizzerà il mondo”.
A leggere Fukuyama si ha l’impressione che il mondo sia stato ormai reso conforme alla ragione e che l’umanità si stia avviando verso una sorta di mercato globale il cui unico proponimento sia quello di soddisfare bisogni e desideri materiali degli uomini.
Nell’articolo dal punto di vista ideologico non è che ci siano molte novità; invece può essere emblematico di quelle che sono le condizioni di fondo della ideologia americana, perché secondo questa gli USA avrebbero scoperto in politica il “segreto della felicità”; la formula politica che esprimerebbe tale scoperta, cioè la democrazia dei partiti, sarebbe esportabile e generalizzabile a tutto il pianeta Terra. E tale unità sarebbe necessaria per poter concretamente attuare quello che è visto come il fine esclusivo della società, cioè il benessere economico equivalente alla felicità individuale.
Si sta instaurando una nuova fede il cui dogma è il seguente: “Il mercato ha la capacità di risolvere tutti i problemi dell’uomo”.
Quindi se nell’ottocento c’era da esportare la civiltà a fine XX secolo c’era ancora da esportare la civiltà.
L’uguaglianza è omicida. Omicida delle identità come primo passo verso la spogliazione di diritti e risorse.
Da cinquanta anni a questa parte molti paesi del Terzo Mondo si sono visti costretti a importare cereali provenienti per lo più dagli Stati Uniti dato che buona parte dei loro terreni è occupato dalle colture di esportazione con conseguente aggravio della bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, se per un certo lasso di tempo questi aiuti alimentari hanno consentito di sbarazzarsi degli stocks invenduti che i coltivatori americani potevano fare acquistare alle autorità federali, da un certo numero di anni la richiesta di grano sul mercato mondiale è progressivamente e sensibilmente aumentata superando le eccedenze.
La maggior parte delle esportazioni agricole dei PVS sul mercato mondiale proviene dalle aziende che dispongono di capitali e di impianti, ossia da quelle esigue fasce di proprietari terrieri di cui sopra.
Ai grandi proprietari terrieri si contrappongono le masse dei piccoli contadini e dei fittavoli costretti a vendere la propria terra o ad abbandonarla agli usurai e respinta sui terreni meno fertili, difficilmente coltivabili e poco pro- duttivi.
La loro produttività è nettamente più elevata di quella della maggior parte delle coltivazioni per uso alimentare. Riassumendo possiamo quindi dire che la coltivazione di prodotti validi per l’esportazione ma non per sopperire alle carenze alimentari della popolazione e le fortissime diseguaglianze sociali presenti all’interno dei PVS so- no alla base della povertà, quindi della sottonutrizione, delle carenze igieniche sanitarie, dell’ignoranza, di una vita dignitosa, della mortalità infantile, dell’emigrazione, del disboscamento con conseguente depaupera- mento del territorio.
Di fatto il boom degli investimenti esteri in questi ultimi trent’anni ha creato un’economia così integrata che difficilmente si è in grado di utilizzare i vecchi parametri per seguire e misurare, ad esempio, l’interscambio commerciale tra un paese e l’altro; l’import e l’export di una nazione, ove si consideri che sfuggono a qualsiasi rilevazione la composizione ed i riferi- menti proprietari di molte aziende, non forniscono più alcun dato significativo.
Buona parte delle importazioni di uno Stato possono provenire da aziende multinazionali impiantate nel paese esportatore, ma controllate da gruppi industriali e capitali di pertinenza dello stesso paese importatore.
E’ ormai praticamente impossibile attribuire una nazionalità ai grandi gruppi di imprese multinazionali, che producono con un’unica strategia di “insideration” gli stessi prodotti dall’interno dei singoli paesi, senza nemmeno farli arrivare da fuori, in molti casi.
In tal modo si omogeneizzano gusti e preferenze della gente, si vorrebbe, a livello planetario, rendendo gli abitanti dei singoli Stati dei “consumatori globali”, tutti uguali tra loro, tutti con le stesse esigenze (create) e con gli stessi desideri (indotti), tutti con la stessa possibilità di scegliere tra i prodotti messi a disposizione dagli apparati produttivi sul mercato internazionale. Tutti, dico io, con la libertà di avere e non di essere in quanto il valore trascendentale dell’agire si è completamente perso.
La consapevolezza di un disastro ed il ruolo del Sovranismo.
Ora, se noi ammettiamo che le condizioni attuali di questi Paesi sono ben peggiori di quelle considerate presenti nelle popolazioni indigene prima del colonialismo la cui economia poteva essere in molti casi considerata di sussistenza, si può senz’altro dire che gli indici statistici di carattere economico non bastano a spiegare le condizioni di una determinata realtà sociale.
La carestia figlia dei cambiamenti climatici ma soprattutto del depauperamento determinato dalle multinazionali e “Il contatto con una civiltà a tecnologia superiore, i cui beni di consumo sono superiori, produce – in queste popolazioni – uno stato di ambivalenza verso la propria tradizione, i pro- pri valori. E l’ambivalenza produce disgregazione culturale…La società va in crisi anche se non c’è stata oppressione fisica, perchè la gente perde fiducia e l’amore per sé stessa. I singoli individui si fanno sedurre dai nuovi beni, dai nuovi costumi e tradiscono le proprie tradizioni, i propri costumi” (F.Alberoni, 2000).
Da qui il fenomeno di un processo migratorio che rischia di diventare un esodo.
Oggi ci troviamo con il conto da pagare per gli errori commessi e che si continuano a fare, vedi la guerra in Libia.
In questo il Sovranismo può e deve svolgere un ruolo centrale volto a disinnescare una bomba che se esplodesse determinerebbe la fine della civiltà europea, almeno nei termini in cui la conosciamo.
Va rivendicato un sovranismo non solo per sè ma anche per i popoli del sud del mondo, un sovranismo che parta dalla rivendicazione di sfruttare per sè le risorse presenti nel proprio territorio, tante o poche che siano.
Il problema infatti è costituito non solo dall’irregolare distribuzione delle risorse nelle varie parti della terra ma anche dal fatto che non tutti i paesi, a cominciare dai PVS, sono in grado o gli viene permesso di utilizzarle.
Come si esce da tutto ciò? Con una sola parola: Sovranismo.
Recuperare e far recuperare la propria sovranità. Una sovranità vera, sostanziale non di facciata.
Occorre quindi invogliare i contadini, ed io aggiungerei, metterli nelle condizioni, a coltivare i prodotti necessari al soddisfacimento alimentare delle popolazioni locali.
In pratica significa, ridato il maltolto, fornire sementi, attrezzi e finanzia- menti a tutti i rurali del Terzo mondo.
Recuperare questi terreni da parte dei PVS, aumentarne la produttività, rida- re lavoro e autosufficienza alimentare è interesse nazionale ed è una delle azioni da attuare per frenare l’ondata migratoria ma anche per diminuire drasticamente il fenomeno del disboscamento dovuto alla necessità da parte dei diseredati di trovare altri terreni fertili.
Quindi così come afferma Andrè Gunder Frank nel “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina” (1969) “il problema dei paesi poveri, perciò, non è la mancanza di risorse, di preparazione tecnologica, di istituzioni moderne, o di caratteristiche culturali favorevoli allo sviluppo, ma il fatto di essere sfruttati da un sistema capitalistico mondiale e dai suoi particolari agenti imperialistici stranieri indigeni”.
Oggi ci si rende sempre più conto che l’atteggiamento egemone: quello del disinteresse, dell’atteggiamento che svaluta il problema, dell’ottimismo di stampo nord-americano fondato sulla fede nella superiore capacità tecnolo- gica ed economica dell’Occidente, nel far piazza pulita di ogni ostacolo alla modernizzazione e nel risolvere per virtù propria le esplosive contraddizioni dello sviluppo ha fallito.
Il problema del sottosviluppo verrà risolto quando i singoli paesi, i singoli popoli saranno liberi di essere nuovamente loro stessi, programmando un loro piano di sviluppo basato sulle proprie aspirazioni, tradizioni e valori, e in grado di sfruttare a loro piacimento le risorse in loro possesso ottenendo delle ragioni di scambio più umane ed eque. In una sola parola, quando saranno nuovamente sovrani a casa loro, quando riprenderanno le chiavi di casa.
Allora si deve aiutarlo a ritrovare la sua identità perchè di questo si tratta e, a mio avviso, l’unica strada battibile è il risveglio della coscienza nell’opinione pubblica dal momento che è impensabile che il potere economico vada contro i suoi stessi interessi promuovendo un nuovo ordine economico internazionale.
E questo lo può fare solo una politica sovranista consapevole delle differenze e rispettosa delle sovranità.
Gabriele Felice
Presidente Consorzio SAVE ITALY