Non c’è solo la guerra condotta militarmente dai gruppi armati dello Stato islamico. C’è anche un’altra guerra in corso, meno visibile ma altrettanto subdola. Un conflitto culturale che forse non sparge sangue innocente, ma che lascia comunque sul terreno dei cadaveri: quelli della libertà di parola e del pensiero critico. Bisogna rassegnarsi: dell’islam e dei musulmani non si può più parlare, se non – ovviamente – per ripetere l’unica versione ammessa dal pensiero unico, e cioè che «l’islam è una religione di pace». Chi agisce in senso contrario, chi s’arrischia a manifestare un’opinione appena diversa viene zittito, punito a colpi di sentenze.
Non importa se si dice qualcosa che corrisponde al vero o se si esprimono idee condivisibili e condivise. La bocca va tenuta serrata, altrimenti si viene trascinati in tribunale. E i giudici compiacenti – pronti a battere il martelletto in ossequio alla Verità Dominante – non mancano. Ne sa qualcosa l’intellettuale francese Eric Zemmour, che è stato condannato a tremila euro di multa per «istigazione all’odio nei confronti dei musulmani». Lo hanno trascinato in tribunale le due principali associazioni dell’antirazzismo militante d’Oltralpe, Sos Racisme e Licra, piuttosto note per trovate di questo genere.
Zemmour dovrà risarcire anche loro, per via di alcune frasi pronunciate nel 2014. In un’intervista con il Corriere della Sera ebbe l’ardire di sostenere che «i musulmani hanno un loro codice civile, è il Corano. Vivono tra di loro, nelle periferie. I francesi sono stati costretti ad andarsene». Poi aggiunse una riflessione di buon senso: «Io penso che stiamo andando verso il caos. Questa situazione di popolo nel popolo, di musulmani dentro i francesi, ci porterà al caos e alla guerra civile. Milioni di persone vivono qui, in Francia, e non vogliono vivere alla francese».
Per queste parole Zemmour è stato accusato di fomentare l’odio, gli hanno marchiato a fuoco sul petto la lettera scarlatta dell’islamofobia. Tutto per impedirgli di denunciare una situazione che in Francia, ma anche nel resto d’ Europa, è per lo meno preoccupante. È stato il britannico Daily Mail a documentare l’esistenza di un’ottantina di tribunali religiosi islamici nel Regno Unito, corti clandestine che applicano una giustizia parallela basata sulla shari’a. È toccato invece al Daily Express segnare sulla mappa di Parigi ben sette quartieri in cui è consigliabile che i turisti anglo americani non si avventurino, perché il rischio di essere aggrediti è piuttosto alto.
Lo studioso di islam Gilles Kepel da anni racconta come le banlieue francesi siano in realtà zone franche in cui vige la legge islamica: in pratica, un piccolo Stato dentro lo Stato, in cui, appunto la Francia finisce e inizia una sorta di Califfato di periferia. Sono le stesse cose che ha denunciato Zemmour, con la differenza che Kepel è considerato un progressista, e dunque – per ora – non finisce sotto la mannaia dell’inquisizione politicamente corretta. L’obiettivo di chi oggi si oppone alla cosiddetta «islamofobia» è chiaro: silenziare qualunque voce dissenziente. Impedire che si pronunci anche solo una parola di troppo sulla religione musulmana. Ma se l’islam non si tocca, diventa molto difficile comprendere, per esempio, i motivi per cui tanti giovani nati e cresciuti in Europa si radicalizzano e si mettono ad ammazzare come cani i loro coetanei. Lo ha spiegato bene in un saggio uscito sul Wall Street Journal (e tradotto in italiano dal Foglio) Maajid Nawaz, un ex estremista islamico che da alcuni anni – dopo essersi «deradicalizzato» presiede un’organizzazione chiamata Quilliam, impegnata a combattere il fanatismo. Bisogna avere il coraggio di indicare le radici islamiche dei gruppi terroristi, altrimenti non si riuscirà mai a sconfiggerli. Nawaz ha usato parole di estrema moderazione, si è mosso con cautela, consapevole di avere i piedi poggiati su un terreno scivoloso, però lo ha scritto: «Lo Stato islamico ha sì qualcosa a che fare con l’islam: non niente, non tutto, ma qualcosa. Quel qualcosa è il modo in cui tutti gli islamisti giustificano le proprie argomentazioni, utilizzando le scritture islamiche e cercando reclute tra i musulmani».
Ma se dell’islam è proibito anche solo pronunciare il nome, beh, capite bene che qualunque azione contro il terrore è destinata a fallire. Sono tanti, troppi gli intellettuali, gli scrittori e i politici condotti davanti a un giudice con l’accusa di istigazione all’odio. Ha cominciato Michel Houellebecq nel 2002, per una frase contenuta nel suo romanzo Piattaforma. A citarlo in giudizio fu, tra le varie associazioni, la Grande Moschea di Lione. Lo scrittore rischiava fino a un anno di carcere e 45mila euro di multa. E mentre lui doveva spiegare di non essere un razzista islamofobo davanti a una corte, Jacques Chirac premiava con l’Ordine nazionale al merito per lo spirito «di dialogo, di tolleranza e di pace» Dalil Boubakeur. Cioè il capo della moschea lionese che voleva mandare in galera un romanziere.
Di episodi come questi la storia recente è piena. Ne racconta tanti Giulio Meotti in un bel libro appena uscito intitolato Hanno ucciso «Charlie Hebdo» (Lindau), che merita di essere letto proprio perché descrive questi odiosi assalti alla libertà di pensiero e di espressione in nome dell’ islam. Sempre nel 2002, per dire, ci fu il primo processo per istigazione all’odio verso Oriana Fallaci. Ne subì altri tre, uno dei quali a Bergamo, mai concluso solo perché Oriana morì prima. Nel 2007 è stato Charlie Hebdo a finire alla sbarra. I satirici francesi furono assolti: ci ha pensato un commando jihadista a farli tacere per sempre. Nel 2013, la rivista Valeurs Actuelles è stata riconosciuta colpevole di fomentare la discriminazione verso gli islamici per aver pubblicato in copertina la Marianna francese col volto coperto da un velo: 2000 euro di multa. Nel 2014 è stato il turno di Renaud Camus, condannato a pagare 5000 euro per istigazione all’odio per aver esposto la sua teoria della «Grande Sostituzione». Pochi giorni fa (con singolare tempismo post elettorale), Marine Le Pen è stata assolta in un processo sempre per odio che durava dal 2010. La leader del Front National aveva osato criticare le preghiere dei musulmani per strada. La chiamano «jihad by court», jihad in tribunale. Se rischi la multa o la galera, prima di criticare l’islam ci pensi due volte. E poi taci. Nel frattempo, il pensiero muore in nome dell’antirazzismo.
di Francesco Borgonovo LIBERO