Quando la storia continua ad avere dei pessimi studenti

Unione Europea

Non ci sono alibi per una demenza storica che vuole azzerare, nell’oblìo dell’impossibile, il fatto che la Russia è un mondo

di Giuseppe Romeo – Non ci sono alibi per non pensare, ormai, che i peggiori studenti della loro stessa storia siano i popoli europei, esempi della percezione realista di Gramsci nel vedere i limiti di ciò che sarebbe stato della memoria degli uomini di un vissuto presto dimenticato. Non ci sono, purtroppo, alibi neanche per non guardare in faccia la realtà dove, invece di cogliere segnali decisivi per il futuro dell’ordine mondiale attraverso il destino dell’Europa, ci si trincera dietro una sorta di riscatto nei confronti degli Stati Uniti di Trump.

Un riscatto tardivo e fuori luogo se non altro perché ciò che sarebbe e sta accadendo era già chiaro da tempo. Perché l’alleato di sempre ha deciso di mettere al centro i propri interessi, come fatto sempre ma con la differenza che, oggi, non coincidono con quelli di un’Europa sempre più post-atlantica. Ragioni, quelle statunitensi, che ritengono di non dover sposare interessi di crescita di un continente, quello europeo, che ha rinunciato proprio nei momenti migliori in cui la storia gli aveva aperto le porte, a fare la differenza sperando che, ancora una volta, il generoso zio Sam sarebbe stato di loro aiuto. Ma non solo.

Non ci sono alibi per una demenza storica che vuole azzerare nell’oblìo dell’impossibile il fatto che la Russia è un mondo. Un universo di popoli, di culture, di potere se si vuole, che per oltre un millennio ha sperimentato quanto si poteva sperimentare della stessa natura umana. Ciò non assolve Putin probabilmente, ma in ogni happening proveniente dal Cremlino e sue pertinenze, vicine o lontane, la storia è messa al centro di ogni scelta. Forse strumentale ma coerente con il processo politico in atto. Ed è questo aspetto che, in poche parole, ha fatto fallire ogni tentativo di regime-change costringendo gli Stati Uniti a dover rideterminare le priorità e a guardare al resto del mondo da finestre diverse.

Quasi un ritorno alle prospettive di Theodore Roosevelt per il quale l’Europa, già più di un secolo fa, ovvero l’Unione europea di oggi, non sarebbe andata oltre l’essere un mercato, ma da cui tenersi lontani dalle sfortune di un continente che non sapeva, e non sa, badare a se stesso. Per questo, per il primo Roosevelt il Pacifico era di certo molto più grande, e interessante, dell’Atlantico, come accade oggi per Trump.

La storia, quindi, nel suo ripetersi, continua ad avere dei pessimi allievi nell’Europa del tutto e subito, del potere democratico in salsa liberal ma solo per chi può e non certo per chi vive ai margini di società divise tra sogni d’opulenza pronto-consumo e popoli alla deriva. Popoli illusi da un senso della democrazia che mistifica, al contrario, la dittatura di un politicamente corretto deciso altrove. Popoli stretti nella morsa dei potenti burocrati e delle migrazioni indotte che sovvertono tradizioni e identità. Un fenomeno, quello migratorio, inteso a far pagare il prezzo di un eurocentrismo coloniale sopravvissuto attraverso un’economia drogata per troppo tempo da prodotti finanziari che hanno destrutturato ogni capacità produttiva e occupazionale a favore di altre latitudini sino a ieri chiamate Terzo Mondo.

In tutto questo abbiamo dimenticato, guardando al nuovo vecchio avversario di sempre, ma a volte anche utile alleato – chiediamolo alla Prussia e alla Lega dei Tre Imperatori cui la Polonia dovrebbe guardare – ha pagato il suo prezzo, o alle popolazioni slavofone che nella Russia di ieri avevano visto il proprio protettore. O nella Francia che sperava, come poi avvenuto costruendo una diplomazia di guerra nel 1914, di poter contare su San Pietroburgo per chiudere la partita con la Germania guglielmina. O nello stesso Regno Unito nel decidere, sempre a San Pietroburgo, di chiudere la partita del Grande Gioco per avere mano libera in Asia Centrale e proteggere l’India, gioiello imperiale.

In ogni caso, ieri come oggi, tra rivoluzioni, guerre, tiranni comunisti o democratici capitalisti pronti ad assalire la diligenza di un’Unione Sovietica morente, in molti, troppi, si sono dimenticati di guardare alla Russia sopravvissuta sottocenere al comunismo come un mondo. Un universo di popoli, di tradizioni, di drammi e di speranze.

Lo aveva capito lo stesso Giulio Verne il cui libro Michele Strogoff probabilmente non ha fatto parte delle letture di Macron, e non solo del presidente francese a quanto pare, mentre uno Starmer probabilmente crede ancora nel fascino del fardello dell’uomo europeo, leggasi “inglese”, destinato a guidare il mondo appartenente a un Kipling d’altri tempi. Un Kipling, però, accorto a quanto e in che misura l’orso russo avrebbe potuto fare la differenza anche nelle lande desolate di quell’Oriente tenebroso che per Ossendowski macina esseri ma anche anime.

La presunzione occidentale di poter passare sopra le vite degli altri credendo di avere la meglio, la si gioca nel fatto che, gli altri, conoscono bene l’animo dei leader europei – di quelli d’oggi non ci vuol molto – se non altro per esperienza professionale come accade per Putin. Così come la sopravvivenza di una leadership, nonostante le sanzioni, le accuse e le stesse spinte estremistiche all’interno del suo entourage, ha dimostrato come e in che misura si intende far sopravvivere un’idea di nazione o di popolo nella diversità non omologata neanche dalle pressioni bolsceviche del passato.

Quella diversità della quale l’Unione europea tecnocratica se non autocratica – ormai nelle mani di una Commissaria che decide andando ben oltre i limiti impostigli dai trattati – ne dimentica il valore, mentre la diversità dei popoli resta il carattere senza la cui difesa la Federazione russa non avrebbe alcun senso storico, nessun significato e priverebbe il mondo di una garanzia di stabilità condannando l’Heartland al caos.

Le ultime vicende di un riarmo da finanziare, ma senza orizzonti strategici meno che mai limitatamente tattici, senza obiettivi definiti, senza dottrine a premessa, il rinunciare a ogni verifica nei fatti scegliendo la via più semplice della verità unica e sola da promuovere anche andando oltre le atrocità commesse dalla parte che si ritiene vittima, ha spostato l’asse del diritto verso la sua negazione: il giustificare il male se utile a combattere altro male. In questa prospettiva si negano secoli di civiltà giuridica e si reiterano errori diplomatici risolti nei campi di battaglia e nelle croci bianche che segnano la storia europea.

Al di là delle dimostrazioni e della lettura sull’attacco russo e sulle condanne, anche la scelta tedesca di fornire un sistema d’arma capace di colpire la capitale russa si dimostra un pericoloso azzardo nell’essere quel superamento del limite di una strategia di brinkmanship che sposta l’asse dello scontro ancora più avanti, riducendo gli spazi non solo di un negoziato definitivo, ma di rischio.

Insomma, i fatti della Domenica delle Palme andrebbero accertati perché se la versione russa è discutibile quella ucraina altrettanto. Non è necessario ricordare l’uso di operazioni false flag da una parte e dall’altra. La possibilità di confondere attività militari tra civili utilizzando le strutture quotidiane per attività militari è vietata dalle Convenzioni internazionali vigenti.

Ma andrebbero anche accertati al meglio fatti e cause di un conflitto nel quale non vi sono spazi di immunità dall’aver usato la disinformazione anche da parte di quelle democrazie che a volte, se utili, compiacciono il tiranno di turno, per poi abbandonarlo quando gli interessi cambiano direzione.
Fatti e cause di un conflitto dal quale anche i Dem americani, ispiratori politici ed economici dell’Unione europea di oggi, si stanno smarcando come ben descritto da un emblematico articolo apparso su «The Hill» (La collina, rivista prossima al partito dell’asinello e che si ispira nel suo nomen al messianismo americano e al paradigma dell’essere – gli Stati Uniti – The city upon the Hill).

Un articolo del 18 marzo u.s. nel quale titolando Sadly, Trump is right on Ukraine (Purtroppo, Trump ha ragione sull’Ucraina) si smonta una narrativa che ha visto l’Ue sposare, non così alla cieca, cause altrui pagando oggi il prezzo della sua inettitudine politica e diplomatica. Una inettitudine che nelle stesse indicazioni della Kaja Kallas, ormai autoproclamatasi Ministro degli Esteri dell’Ue si assume poteri che vanno oltre il dettato previsto per la carica di Alto Rappresentante in materia di Politica Estera, e vice presidente della von der Leyen.

Una carica che le attribuisce solo funzioni, e non poteri, di raccordo e di indirizzo giuridicamente non vincolanti per gli Stati membri, figuriamoci per gli altri. Una carica che non può giustificare l’autorità di porre in essere avvertimenti dal dubbio gusto e significato sulla sovrana libertà di scelta di uno Stato sul come condurre la propria politica estera ponendo condizioni inaccettabili, fuori da ogni principio ispiratore degli stessi trattati come ricordato dal primo ministro slovacco Robert Fico.

Probabilmente un atteggiamento, quello della Kallas, ritenuto lecito per cultura o formazione, sicuramente facendo a meno di conoscere non solo i limiti della carica ma anche di non essere tenuta a considerare la diversa sensibilità dei suoi proxies circa il significato di libertà e democrazia, e di quanto resta di un Occidente veramente libero. Probabilmente sensibilità che forse sfuggono alla cultura baltica troppo presa e condizionata da un senso di vendetta storica mai soddisfatto, ma al quale non tutti intendono sottostare. Una scelta che ha sapori già noti agli europei nei modi e nei termini con i quali viene posto l’aut-aut e che sottende ben altre considerazioni nel voler subordinare (ma sarebbe più appropriato un altro termine) la partecipazione alle cerimonie per la vittoria sul nazismo a Mosca a una possibile volontà di adesione alla Ue.

Una posizione/imposizione che dimostra come si voglia perdere di nuovo l’occasione per sfruttare al meglio il momento per capovolgere a proprio favore ogni possibilità di accordo, giocando proprio sul terreno dello stesso avversario. Magari approfittando del significato della ricorrenza per conquistare un ruolo da negoziatore perso negli anni da un’Unione burocratica e senza anima e difficilmente recuperabile a condizioni date, magari ristabilendo un clima di dialogo con la Federazione russa che nessun riarmo possibile – sempre alle condizioni odierne – potrebbe garantire.

A ciò, si aggiunge il passo del prossimo cancelliere tedesco, Friedrich Merz, pericoloso per due ragioni. La prima, perché di fatto la Germania potrà essere considerata dalla Federazione russa come belligerante; ovvero, parte del conflitto. La seconda, perché ciò legittimerebbe il Cremlino a ordinare missioni per distruggere tali sistemi d’arma lungo le rotte di approvvigionamento, ma anche di colpire la produzione stessa in territorio tedesco se fosse necessario (gli Stati Uniti, Israele e anche lo stesso Regno Unito, possono dire molto su questo tipo di difesa preventiva e con buona pace del diritto internazionale).

Vi è poi una terza considerazione, forse la più importante e quella non valutata. E, cioè che, attesa la validità della prima ipotesi, il riconoscere la Germania come belligerante farebbe sì che l’art. 5 del trattato Nato potrebbe essere disatteso da molti alleati atlantici che, magari pur condannando un atto di ritorsione russo sulla Germania, considererebbero Berlino, per il solo fatto di aver fornito missili da crociera come i Taurus KEPD 350, di averlo fatto per scelta unilaterale – poco importerebbe uno scudo Ue – cui seguirebbe la risposta russa.

Ovviamente, un’ipotesi del genere potrebbe veder scattare una rappresaglia a fianco di Berlino da parte di Londra e Parigi mentre gli Stati Uniti starebbero solo a guardare e il caos si impadronirebbe determinando risposte confuse, un impiego convulso di forze dovute a ciò resterebbe della Nato senza Stati Uniti.

Il risultato? Che, al netto della sofferenza russa dovuta a una risposta nucleare anglo-francese, ma tenuto conto della grande profondità strategica di cui la Russia dispone nello spostare e ridislocare le proprie capacità missilistiche giocando su una decisiva capacità di risposta, la Torre Eiffel o il Big Ben londinese diventerebbero dei ricordi da cartolina. Gli ombrelli nucleari anglo-francesi sarebbero già travolti dal vento nucleare, mentre la Russia potrebbe ancora contare su capacità da next-strike. Resterebbe solo il Colosseo, ma ciò dipenderà dalla posizione che assumerà il governo italiano nei prossimi mesi.

Boaventura De Sousa Santos, professore emerito di Sociologia preso la Scuola di Economia dell’Università portoghese di Coimbra già nel suo Europe: the return to the periphery of the world The beginning of the end of eurocentrism dell’aprile 2022, a due soli mesi dall’avvio della guerra russo-ucraina, riteneva che il conflitto russo-ucraino da allora in poi avrebbe definito ciò che è l’Europa oggi: un piccolo angolo di mondo, che la guerra avrebbe reso ancora più piccolo.

Inoltre, oltre a rappresentare una guerra per procura, l’Ucraina era ed è diventata il “paese del sacrificio” nel tentativo di Russia e Stati Uniti di raggiungere i loro obiettivi geostrategici. La prima, di non perdere di aderenza cercando di essere protagonista dei cambiamenti nei rapporti di forza economici e politici. I secondi, nel ridefinire le proprie capacità militari, ricostruendo una forza economica capace di imporre nuovamente l’egemonia sui mercati degli Stati Uniti a spese della Cina e …dell’Europa (ovvero della Ue).

Forse leggere Michele Strogoff potrebbe avere il sapore, per chi lo fa, di sentirsi un adolescente sognatore di avventure. Leggere l’estate di Barbara Tuchman ne I cannoni di agosto (The Guns of August, 1962), forse potrebbe rappresentare un sincero, umile e utile sforzo di conoscenza per sopravvivere a una sconsiderata follia di un’escalation senza appelli.

Oppure, vi è una terza possibilità: rivedere The Day After del 1983. Un film che fece addirittura cambiare idea a un non certo tenero Ronald Reagan – promotore del cosiddetto Scudo Spaziale votato a garantire una superiorità nucleare degli Stati Uniti in materia di capacità di primo colpo contenendo le possibilità di replica di Mosca – sull’utilità di un possibile scontro nucleare con l’Unione Sovietica. Una visione utile che potrebbe non solo far ripartire le coscienze, ma anche trovare quel poco di buon senso negli smemorati leader europei di oggi che presi da se stessi e votati a difendere valori a doppio standard, potrebbe fare molta differenza.
https://giusepperomeo.eu

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