Pace e Guerra in Europa

Pace e Guerra in Europa

Il pericolo di un nuovo suicidio continentale

di Giuseppe Romeo – Non ci sono dubbi, non ve ne erano anche prima per un accorto osservatore, che l’abbandono da parte degli Stati Uniti dell’avventura in Ucraina determinasse nuovamente in Europa, in quella parte di Europa che nasconde se stessa sotto le ali del potente di turno, un senso di smarrimento e di abbandono tipico della più classica reazione della sedotta e abbandonata. Non ci sono, ancora, dubbi sul fatto che ridefinito il rapporto tra potenze, ovvero tra Russia e Stati Uniti, l’Europa dei piccoli leader senza più un dominus cui chiedere aiuto per darsi una ragione di esistenza, si affida allo strillone più audace e poco importa se atlantico virtuoso o europeista di facciata come può essere il presidente francese.

Insomma, in un’Europa che non ha da tempo prime schiere su cui contare, il futuro del continente fa i conti con l’impreparazione, non solo politica, ma storica e anche militare in senso di pensiero, di una leadership da seconda se non terza squadra non avendo, ad oggi, niente di meglio da schierare in un confronto altamente competitivo.

Che Trump si facesse i fatti suoi o, meglio, degli Stati Uniti era una storia già scritta dalla fallimentare amministrazione Biden. Una storia che se qualche accorto politico del momento avesse letto e bene Il Serpente e la Colomba di Russell Mead avrebbe potuto chiarirsi meglio le idee. Ma non solo. Al netto dei vari Kissinger del momento, i Jeffrey Sachs e altri e non pochi analisti d’oltreatlantico che avevano ben letto nel fuck-Eu della signora Nuland le ragioni della volontà neoconservatrice di tentare la spallata verso il Cremlino, avevano avvisato come e in che misura i termini del disastro fossero annunciati.

La Nato dopo la NatoOggi si tenta di correre ai ripari con Consigli dell’Ue informali in apparenza, ma formalissimi nella sostanza se non altro perché in essi si è manifestato il totale disorientamento di un’aggregazione sovranazionale la cui dignità e, forse ancora peggio, credibilità frana ogni giorno. E poco importano i sussulti di ipocrita illusione di alzare i toni degli europei perché lasciati fuori dal negoziato possibile; giusto contrappasso per aver rinunciato a tale nobile e decisivo ruolo, se non assolutamente esclusivo, che proprio l’Unione europea avrebbe dovuto assumere sin dal 2008 nel tentativo di prevenire crisi e incomprensioni negli anni a seguire sino all’avvio dell’operazione militare russa.

Oggi si vorrebbe affidare il destino dei popoli di un’Unione europea in caduta libera a un Macron, improbabile controfigura di un De Gaulle che alcuni decenni fa comprese la pericolosità di un’integrazione tecnocratica del continente avendo ben compreso i limiti dell’architettura di una entità sovranazionale che avrebbe visto la Commissione collocarsi al centro di ogni decisione politica, sovvertendo prima o poi lo stesso paradigma intergovernativo. O a uno Starmer, che dovrebbe spiegare ai sonnambuli popoli della Ue a quale titolo parli di difesa europea essendo il primo ministro di uno Stato che non è membro dell’Unione pur restando parte della Nato. Oppure, si dovrebbe chiedere alla von der Leyen che spinge a superare anche i vincoli di stabilità ritenuti inviolabili nel passato e passione della Grecia pur di riarmare non si comprende quale esercito europeo non essendo, ad oggi, stata delegata alcuna sovranità specifica nell’ambito della costruzione di forze armate integrate e a comando unico affidato alla Ue (leggasi alla Commissione).

Si può comprendere che 800 miliardi di euro di certo rilancerebbero, ma non si comprende dove, l’industria della cosiddetta difesa che, in questo caso sarebbe da rinominare come industria bellica a fronte del fatto che gli 800 miliardi sarebbero destinati a creare beni a domanda rigida – cioè con ricaduta pari a zero sulla qualità della vita del cittadino europeo. Investimenti che finirebbero per drenare risorse a usi più consoni di crescita dispersi in un’idea di impiego della forza priva non solo di una dottrina comune, ma anche senza un obiettivo definito se non nell’individuare nella specifica minaccia di un’invasione della Federazione russa la ragione di una prospettiva assurda.

Una sorta di non senso non solo economico ma strategico, ammesso che dietro tali intenzioni sia sotteso un pensiero degno di questo nome. In fondo, la von der Leyen e lo stesso Macron, dovrebbero chiedersi come e in che misura una eventuale invasione sarebbe condotta da Mosca ai danni dello spazio europeo dovendo, poi, ammesso che ciò fosse possibile, doversi accollare spese non sostenibili di occupazione.

Insomma, di fronte alla solita retorica del nemico dietro l’angolo di casa, la vera lotta che si vuol condurre sulle spalle dei cittadini europei è su come e in che modo far sopravvivere leader senza credibilità e al limite del ridicolo nelle loro scelte.

Ma ciò non basta. A dimostrazione della caduta libera del fronte europeista si aggiunge l’idea che un riarmo possa restituire all’Unione europea quella centralità politico-strategica che di fatto ha rinunciato ad assumere negli anni e di fronte a una crisi, come quella russo-ucraina, che doveva essere affrontata e risolta attraverso una diplomazia credibile e sincera e non convincendosi che un regime change fosse possibile in Russia. O che il cambiamento di regime in Ucraina si sarebbe presentato come una rivoluzione democratica pagata dalle minoranze russofone (e non russofile come rinominate dai media d’Occidente) con buona pace degli stessi criteri di Copenaghen che, ad oggi, se fosse, Kiev difficilmente li potrebbe soddisfare.

A questo punto, a condizioni politico-strategiche date e orfana oggi di se stessa, l’Ue cerca di porre rimedio e lo fa seguendo la narrativa della minaccia ai propri confini, quasi ben oltre il rischio di conflitto che ha caratterizzato gli anni migliori della Guerra Fredda. In questo sussulto di dignità, lo stesso presidente francese che ritiene di poter assumere la guida della difesa europea per il solo fatto di disporre di una propria forza di deterrenza nucleare, crede che Mosca rappresenti un pericolo immanente e che il riarmo dell’Unione europea, simbolo dei valori democratici, rappresenti la vera via per definire e regolare i conti di una sconfitta politica lacerante.

L’idea di potersi collocare ai vertici di una nuova politica europea più assertiva non ha molto a che fare con l’Ucraina e la soluzione della crisi del domani futuro. In realtà, tutto ciò che si osserva è lo spostamento del cambio di narrazione che non affida posti esclusivi alle deboli leadership eurounioniste costrette a trovare nella minaccia russa l’unica immediata possibilità di coagulare un consenso ormai sempre più debole. In realtà, una strategia politica già vista e ben appresa proprio dalle esperienze autocratiche.

Oggi l’Unione europea fa i conti con la necessità di dover giustificare la scelta di essere stata belligerante sin dal primo momento, di dover compensare il non aver scelto quell’equilibrio che le avrebbe garantito di essere, oggi, l’unica e vera attrice di un processo di negoziato che la vedrà, al contrario, collocata ai margini da spettatrice impotente.

Lo stesso discorso di Macron sottende una compulsività pericolosa e un’approssimazione tale nel momento in cui si esprime sul futuro della Russia oltre che dell’Ucraina ponendo un’ipoteca pericolosa sui destini dell’Europa laddove si spinge sino a dichiarare che “La nostra generazione non vedrà più i dividendi della pace” e che “La pace tornerà nel nostro continente con una Russia pacificata”. Una posizione che alza un nuovo muro invece di aprire un fronte di dialogo possibilista con Mosca, promuovendo un pericolo che non tiene conto che la Russia non ha capacità militari per invadere l’Europa. Può solo distruggerla se ricorresse al proprio differenziale nucleare, ma convenzionalmente non potrebbe sostenere alcuna occupazione (non ci sono i presupposti sui quali poteva contare il Patto di Varsavia: ovvero la partecipazione delle forze armate degli Stati-parte del trattato di allora e oggi Stati-parte della Nato).

Inoltre, una guerra in Europa vedrebbe gli Stati Uniti isolarsi da subito con un Orban che ci lascerebbe soli e i Baltici, Polonia compresa, che hanno fatto la voce grossa nascondendosi dietro la NATO a guida USA, si smarcherebbero subito nel momento in cui si troverebbero a essere la prima linea del fronte.

Certo, la forza nucleare di Francia e Regno Unito può essere un deterrente per garantire la sicurezza delle due Nazioni. Ma un impiego reale verso la Russia con le collaudate capacità counterforce di Mosca non farebbe alcuna differenza. Si dovrebbe immaginare Francia e UK accerchiati via mare con le unità SLBM russe e tener conto che ogni capitale europea è già targetizzata. Aspetti, questi, che gli Stati Uniti conoscono molto bene così come sanno da sempre che la forza della Russia è rappresentata da una profondità strategica favorevole per facilità di spostamento e ridislocazione dei sistemi di lancio ICBM in territori a scarsa densità di popolazione. Un particolare che, senza l’aiuto degli Stati Uniti, renderebbe nulla ogni pretesa di poter condurre un’operazione counterforce nucleare da parte di Parigi e Londra.

L’Italia, dal canto suo, nel tentativo di rimediare all’ingombrante posizione francese e cercando di non inimicarsi il buon Donald, mantenendo un piede nella loyalty atlantica, si è poi sbilanciata nel proporre di estendere l’art. 5 del trattato dell’Atlantico del Nord alla Unione europea senza tener conto, sul piano giuridico – che sottende anche valutazioni di carattere politico – che si dovrebbe rinegoziare il trattato dell’Atlantico del Nord facendo sì che l’UE sia parte del Trattato a condizione che ad essa TUTTI gli Stati Ue abbiano delegato la sovranità in materia di difesa e di impiego delle rispettive Forze Armate.

Ma non solo. Nel tentativo di dare respiro a una creatura in pieno debito di ossigeno, sempre l’Italia sposta e corregge un tiro già poco efficace individuando come alternativa alle conclusioni degli ultimi consigli, quella di promuovere una forza di interposizione a guida turca e con contingenti di nazioni extra-Ue.

Di fatto una capitolazione di ciò che resta dell’idea di un’Unione europea garante della sicurezza e stabilità di se stessa e delle proprie prossimità. Una proposta a dimostrazione che ci si affida a Erdogan per costruire un percorso negoziale ponendo la Turchia non solo al centro delle ragioni europee di esistenza di un’esperienza comune, ma riconoscendo ad Ankara un ruolo decisivo e centrale nello schieramento atlantico di domani (se esisterà ancora) e nell’essere il vero ponte tra Occidente e Oriente. E a nulla varranno gli spostamenti in avanti di una Polonia convinta di potersi ritagliare, per differenza, una propria capacità politica cercando di promuoversi come prossima potenza nucleare (chissà cosa ne penserebbero gli Stati Uniti).

Nel 2017, in tempi non sospetti ma che avevano già visto come e in che misura si sarebbe evoluta la crisi tra Russia e il cosiddetto mondo libero per l’Ucraina, James Kirchick in The End of Europe: Dictators, Demagogues, and the Coming Dark Age disegnava e bene quell’età oscura verso la quale una miope Unione europea troppo presa dalla sua tecnocraticità pseudo-democratica si sarebbe diretta negli anni a seguire.

Biden o Trump, l’Unione europea paga il prezzo di non essere stata capace non solo di definirsi concretamente come luogo della democrazia vera e partecipativa dei popoli e non delle istituzioni fedeli al burocratese del momento, ma dall’aver sempre ritenuto per opportunismo che il punto di vista che doveva prevalere doveva essere quello a stelle e strisce. Ma per Kirchick, neocon senza alibi, se per venticinque anni il raggiungimento di un’Europa “intera, libera e in pace” è stato il mantra degli statisti americani ed europei, oggi sembra che tutto si sia capovolto e finito nelle nebbie di una guerra che si poteva evitare e che andava evitata rimodulando, ad esempio, scopi e regole di partnership della stessa Nato.

Nazionalismi o meno, Orban o altri, se non anche i polacchi di oggi convinti di essere destinatari di una missione di fede nel difendere l’idea di Europa sottendendo, al contrario, proprie ambizioni di leadership per il futuro ad Est di Bruxelles, l’Unione europea nella sua declinazione militarista (e non militare) rinuncia a essere un attore protagonista, gettato fuori dalla storia per colpa di scelte di leader innamorati più della loro sopravvivenza politica che non della sicurezza dei propri popoli. Kirchick, pur nella sua strumentalità, e su piani dialettici diversi, offriva una lettura importante della quale si sarebbe dovuto tener conto, così come oggi si dovrebbe tener conto di quanto e in che misura le relazioni tra Stati Uniti e Federazione Russa sembrano svolgersi dopo che entrambi gli attori abbiano letto Charles A. Kupchan in quel Come trasformare i nemici in amici. Le radici di una pace duratura. Un testo, cui forse un pò di umiltà a fronte della pericolosa saccenza di chi guida gli Stati di quest’Unione compulsiva e farsesca avrebbe ben consigliato di sfogliare almeno l’indice.

Oggi, al contrario, si cerca un nemico assoluto. Un avversario possibilmente mortale che giustifichi scelte importanti da parte di una esperienza politica diventata poco credibile per causa propria: quelle europeista. Per aver permesso che altri interessi, altri giochi di potere e di potenza, iniziati male e finiti peggio, si presentassero nel continente rendendo privi di significato gli stessi presupposti di principio posti alla base del processo di integrazione continentale. Che piaccia o meno, non si potrà procedere a una pacificazione vera se il pregiudizio diventa arma di discrimine tra i popoli e regola della diplomazia. Non è solo la liceità o illiceità di una scelta un discrimine utile a garantire una politica credibile e una diplomazia efficace. Bensì, è la conoscenza delle cause e delle ragioni che ci pone sul piano di contenerne gli effetti e governare il dopo. Aspetti cui l’Europa ha rinunciato mentre gli Stati Uniti ridefiniscono le proprie priorità e la Turchia di Erdogan ringrazia per essere tornata al centro dei destini del Vecchio mondo senza colpo ferire.

L’Europa, ovvero la UE, è ormai un’autocrazia tecnocratica, oltre che in economia, anche sui valori. La Commissione passa ormai sulle volontà e sugli interessi dei popoli con molta facilità e la stessa von der Leyen non può dispensare lezioni di democrazia a nessuno.

Dire qualcosa di europeo significa restituire all’Europa la capacità di decidere del proprio destino, evitando di alzare nuovi muri o non permettendo che si possa influenzare l’esito di un voto che resta libero sino a prova contraria. Se la Russia è oggi poco incline a guardare a Ovest con fiducia molto lo abbiamo fatto noi accettando gli obiettivi di dominio USA franati sulla pelle degli ucraini. Non esiste Europa senza Russia. Piaccia o non piaccia è così da più di mille anni.

Il problema è come ripristinare un clima di fiducia reciproca cosa che abbiamo gettato nel cestino nel 1997, nel 2008, nel 2014 e nel 2022. Il Trattato dell’Atlantico del Nord deve essere urgentemente rinegoziato, mentre l’UE deve fare la storia superando i muri che si è costruita e quelli innalzati contro la Russia portando al disastro del 22 febbraio 2022. E questo, perché la storia d’Europa è storia dei popoli europei e l’Europa non si ferma a Kiev, ma arriva agli Urali se non a Vladivostok.

Se i latini ricordavano che la storia è maestra di vita, Gramsci aggiungeva, nella sua concretezza disarmante, che essa ha però dei pessimi studenti. Oggi le leadership eurounioniste sembrano presentarsi non solo come un concentrato di approssimazione, ma anche di pericolosa supponenza.

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