Negli ultimi anni è successo diverse volte che la Giornata della Memoria sia stata occasione di polemiche
In questo caso ci ritroviamo a leggere con un po’ di perplessità il pezzo che Silvana De Mari ha firmato su La Verità il 27 gennaio scorso. Perplessità dovute sia all’impostazione polemica che ad alcune affermazioni fatte dall’autrice (che stimiamo e della quale abbiamo apprezzato molte volte il coraggio e la verve controversistica), che forse meriterebbero qualche discussione.
L’articolo definisce la celebrazione dell’anniversario della liberazione degli ebrei dai campi di sterminio una «fiera dell’ipocrisia e dell’antisemitismo», sostenendo che la scelta della data del 27 gennaio sia «discutibile», e in tutta onestà non riusciamo a capire perché.
La De Mari ritiene che l’ingresso delle truppe sovietiche ad Auschwitz non sia stato l’evento cruciale, fondamentalmente perché il campo era già stato quasi totalmente evacuato. Dopodiché sceglie come data ideale l’11 aprile, giorno in cui gli americani sono entrati a Buchenwald (anch’esso evacuato, ma solo in parte).
È bene chiarire alcuni dettagli
Nel contesto dell’offensiva della Vistola-Oder, l’armata rossa ha già liberato il campo di Majdanek (presso Lublino) nel luglio del 1944, arrestando numerosi ufficiali delle SS e scatenando così il panico negli altri campi. I responsabili di Auschwitz decidono l’evacuazione, e dall’agosto 1944 a metà gennaio 1945 circa 65000 prigionieri vengono trasferiti a piedi verso Wodzisław Slaski e Gliwice, dove vengono caricati sui treni che li porteranno in Germania. Qui verranno impiegati come manodopera in vari impianti industriali.
Per tutta la seconda metà del 1944 le SS cercano di cancellare le prove dei crimini commessi. Quando infine i soldati della 60ma armata del primo fronte ucraino guidati dal generale Ivan Stepanovič Konev arrivano ai cancelli di Auschwitz sono le ore 15 del 27 gennaio. Viene liquidata la resistenza degli ultimi tedeschi in ritirata, e i sovietici perdono quasi 300 uomini per liberare i 7000 internati ancora presenti nel campo. Questi, da parte loro, accolgono i sovietici come dei veri liberatori. Ora, noi facciamo fatica a capire per quale motivo non dovremmo considerare l’armata rossa la vera liberatrice di Auschwitz.
Lo scetticismo gettato sui fatti sembrerebbe voler dare voce a un implicito sentimento antirusso. Eppure la storia delle origini dello Stato di Israele, che così tanto sta a cuore alla De Mari, sarebbe stata totalmente differente senza l’apporto decisivo dell’URSS di Stalin. È noto infatti come la delegazione sovietica abbia deciso col suo voto l’approvazione della risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 26 novembre 1947, rendendo possibile la divisione della Palestina e l’istituzione dello Stato d’Israele. Insieme all’URSS (e condizionate da essa) votarono Bielorussia, Ucraina, Cecoslovacchia e Polonia, promuovendo la risoluzione con un risultato di 33 favorevoli, 13 contrari e 10 astenuti. Se il gruppo filosovietico fosse passato al campo avverso, la risoluzione non sarebbe passata.
I rapporti tra Unione Sovietica e Israele si sarebbero raffreddati qualche anno dopo, quando Stalin si sarebbe reso conto del naufragio del suo progetto di sostenere un paese a ispirazione socialista in mezzo alle monarchie arabe. Di questa oscillazione strategica rimane testimone la diffidenza che il mondo arabo ha continuato a nutrire, con alterne vicende, nei confronti della Russia. Resta il fatto che, in mezzo alle indecisioni d’oltreoceano (dovute anche alle pressioni dei movimenti antisemiti, che fino al maccartismo continueranno a proporre l’equazione tra ebrei e comunisti), il 19 marzo del 1948 il delegato statunitense all’ONU Warren Austin propose di bloccare l’applicazione della risoluzione 181. In questa finestra temporale, l’URSS è nei fatti l’unica sostenitrice della causa nazionale ebraica.
L’esito vittorioso della prima guerra arabo-israeliana dipende in gran parte dalle armi offerte dai sovietici. La data del 27 gennaio, d’altra parte, non è stata imposta dal Partito comunista sovietico e dalle sue «numerose ancelle», come sostiene la De Mari. Piuttosto, è stata scelta e confermata in una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 1 novembre 2005, la cui iniziativa è da ricondurre alla delegazione dello Stato di Israele, guidata dal ministro degli affari esteri Silvan Shalom. Certo non è da escludere che una discussione abbia avuto luogo dietro le quinte, se dobbiamo dare fede ad alcuni dettagli. Nella relazione tenuta in sessione, il testimone Elie Wiesel menziona tra i liberatori prima gli americani di Buchenwald, e solo in seguito i sovietici di Auschwitz e gli anglocanadesi di Bergen-Belsen, in uno strano capovolgimento cronologico.
Ma un altro intervento, quello dell’ex funzionario dell’ONU ed ex ufficiale dell’esercito britannico Brian Urquhart, serve a chiarire come la data scelta dipenda dalla portata simbolica del campo di Auschwitz, considerato «il peggiore di tutti i campi di concentramento nazisti».
Sostenere come viene fatto nell’articolo che da questa decisione calata dall’alto siano usciti «fiumi di soffocato risentimento» e «negazionismo» ci sembra un non sequitur. Così come appare un non sequitur il collegamento che viene suggerito tra l’attuale antisemitismo mediorientale, i piani hitleriani per iniziare uno sterminio regionale degli ebrei nel mondo arabo (con la collaborazione dell’allora gran muftì di Gerusalemme) e l’antisemitismo diffuso in segmenti pure non trascurabili dell’opinione pubblica occidentale. Quasi a suggerire un’empia alleanza transtemporale tra palestinesi, nazisti e loro discendenti ideologici.
A questo genere di genealogie vaghe si può sempre rispondere con una richiesta di chiarezza: si sta forse sostenendo che le critiche alle politiche del governo israeliano siano equiparabili, per una strana proprietà transitiva (che non si dovrebbe mai applicare nelle ricostruzioni storiche) alla volontà genocida nazista? Si ritiene forse che le obiezioni umanitarie alla politica militarista di Israele in medio oriente (ribattezzate col titolo politico di “antisionismo”) siano, per il tramite delle ricostruzioni del patto islamico-hitleriano, un prolungamento dell’eterno demone antisemita che agita la coscienza mondiale da due millenni?
Al di là delle polemiche negazioniste e della posizione di chi ritiene che uno stato ebraico non abbia diritto di esistere, le aspre critiche che Israele si è attirata per le sue politiche di rappresaglia espansiva e per la repressione sistematica dei territori occupati devono essere inserite una volta per tutte nel quadro di una legittima e doverosa discussione intorno ai limiti del diritto di difesa. Se si vuole contestualizzare ogni azione militare israeliana come guerra difensiva bisogna mettere in conto che esiste un’opinione pubblica mondiale che, pur digiuna dei consunti arnesi dell’antisemitismo, chiede che siano posti con fermezza dei paletti intorno a un’amministrazione che si fa pochi scrupoli nella sua costante ricerca di un equilibrio egemonico nella regione mediorientale, come d’altronde testimonia la crescita dell’opposizione di una parte della stessa popolazione ebraica.
L’azione che ha visto esplodere i cercapersone libanesi (provocando delle vittime civili) nel tentativo di sabotare Hezbollah può o no essere classificata come un atto terroristico? E in caso di risposta negativa, quale è il discrimine?
In molti ormai lamentano che Israele ritenga di essere al di sopra di ogni critica. Bollare come manifestazione di antisemitismo ogni critica argomentata aumenta il risentimento di cui si parlava sopra.
Per concludere, riteniamo che commentatori come Silvana De Mari operino ancora a partire dalla convinzione che l’antisemitismo sia un’eredità raccolta dalle estreme destre e soprattutto dalle estreme sinistre extraparlamentari, che continuano a coltivare il germe dell’odio per gli ebrei nelle loro ostinate e mai spente fucine ideologiche, ben attive anche dopo essere state umiliate dalla trionfante egemonia culturale atlantica.
La nostra impressione è che la diffusione di un nuovo antisemitismo tra le giovani generazioni sia un fenomeno molto complesso, dovuto più che altro al fatto che zoomer e millennial hanno iniziato a vivere in un mondo post-storico e post-ideologico, in cui la memoria storica viene sempre più percepita come strumento di legittimazione di posizioni di potere e di status quo inveterati. Di conseguenza, una pesante disillusione e un ironico (ancorché ignorante) scetticismo portano a guardare con disincanto alle narrazioni ufficiali della storia e ai fondamenti etici della civiltà occidentale postbellica. Si tratta di un fenomeno nuovo, perché i canali tradizionali di trasmissione del pregiudizio si sono interrotti violentemente.
La cultura mainstream euroatlantica, vera avanguardia della nostra, è filoebraica fino al midollo. Le nuove generazioni hanno preso a contestare in modo scomposto e semiserio (qualcuno direbbe post-ironico) i pilastri dell’eredità ideologica ricevuta, e tra questi c’è anche l’Olocausto, visto da molti come l’evento che legittima l’esistenza dello Stato d’Israele. Come se il senso di colpa di cui parla la De Mari non facesse più presa.
È nostra modesta opinione che connettere la storia del novecento con l’opposizione alle politiche odierne di Israele non serva tanto a gettare una luce sinistra e delegittimante sull’antisionismo odierno, quanto piuttosto a rinchiudere l’intera tragica vicenda nazista nella cornice riduttiva di una narrazione legittimante, e di conseguenza a screditarla radicalmente. La questione non è solo etica, è innanzitutto culturale.
Silvano Antenore