a cura di Daniele Trabucco (*) – Il discorso che l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Benito Mussolini, tenne alla Camera dei Deputati il 03 gennaio 1925, a seguito delle note vicende giudiziarie e politiche concernenti il c.d. «delitto Matteotti», viene letto dai più (si veda anche l’editoriale di Scurati su «la Repubblica») come la fine della democrazia parlamentare in Italia, sancendo la definitiva frattura tra il fascismo e le opposizioni. In realtà, sul piano prettamente costituzionale, non si verifica alcunché di particolarmente rilevante.
Dal 1922 alla fine del 1925 la forma di Governo in Italia può considerarsi ancora parlamentare, data la nomina regia di Mussolini a Presidente del Consiglio dei Ministri ed in ragione del rapporto di fiducia intercorrente tra il Governo del Re e le due Camere (il Senato, non va dimenticato, non era elettivo, ma di nomina regia).
Solo a partire dalle c.d. «leggi fascistissime» 24 dicembre 1925, n. 2263 e 31 gennaio 1926, n. 100 si assiste ad una supremazia del potere esecutivo su quello legislativo sia con la trasformazione del Presidente del Consiglio dei Ministri in «Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato», facendo venir meno in questo modo il rapporto di fiducia tra il Governo ed il Parlamento in quanto il «potere esecutivo viene esercitato dal Re per mezzo del suo Governo», sia mediante il disposto che vieta di inserire un qualsiasi oggetto nell’ordine del giorno delle Camere stesse senza l’adesione del Capo del Governo.
Alcuni costituzionalisti (Donati, Ranelletti), in quegli anni, non vedevano, nonostante queste trasformazioni costituzionali, un’estromissione della democrazia parlamentare, ma un ritorno alla monarchia costituzionale pura propria degli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore dello Statuto Albertino del 1848. Ed anche chi fornisce una lettura diversa (Paladin), parla di sistema diarchico ove il potere di indirizzo veniva esercitato dal Capo del Governo, ma il Re rimaneva al vertice dello Stato-Apparato non solo in qualità di Capo dello Stato, bensì in quanto abilitato, vista la vigenza dell’art. 67 dello Statuto, di revocare e sostituire il Capo del Governo come, peraltro, avvenne nel pomeriggio del 25 luglio 1943.
L’inserimento, nella diarchia, di un terzo organo costituzionale, il Gran Consiglio del Fascismo (nato nel 1922 quale organo di partito) a seguito della legge 09 dicembre 1928, n. 2693 (parzialmente modificata nel 1929), non la fece venir meno, limitandosi ad introdurre un regime di «semi-rigidità», dal momento che il Gran Consiglio aveva il compito di esprimere pareri obbligatori (non vincolanti) sulle leggi più importanti e proporre le candidature all’Ufficio di Capo del Governo (ad esempio, in caso di morte o dimissioni) sulle quali, però, la Corona restava libera di decidere.
Tutto questo per dimostrare che anche il sistema autoritario fascista, impostosi dopo il 1925, aveva, diversamente dal III Reich, un qualche sistema di «pesi e contrappesi». La storia costituzionale, dunque, è utile e fondamentale proprio per consentire l’elaborazione di un corretto giudizio storico sui fatti del passato.
(*) SSML/Istituto di grado universitario «san Domenico» di Roma