Nel 1999, D’Alema diede il via libera alle operazioni belliche dopo aver raggiunto un accordo con l’allora presidente americano Bill Clinton
In tanti pensano che senza il dramma della guerra nell’ex Jugoslavia e le bombe su Belgrado, la carriera politica di Massimo D’Alema sarebbe potuta essere molto diversa.
Intervistato dal Corriere della Sera, lo riconosce anche il diretto interessato: “Sono il presidente del Consiglio che portò l’Italia in guerra. La crisi del Kosovo segnò la mia esperienza alla guida del governo”.
Era il primo premier post-comunista nella storia italiana, secondo Francesco Cossiga era il tassello “indispensabile” per poter fare la guerra in Kosov. E così fu, 5 mesi dopo l’inizio dell’avventura a Palazzo Chigi, il 21 ottobre del 1998. “Noi siamo stati alleati leali degli americani ma, insieme ad altri europei, in un rapporto dialettico che non fu sempre facile”, ricorda oggi Baffino.
“Quando il governo di Romano Prodi cadde eravamo in una situazione prebellica. Prodi infatti aveva già deliberato l’activation order, che è l’atto con cui i governi dell’Alleanza Atlantica pongono le loro Forze armate sotto il comando unificato della Nato. Era un momento di possibile e imminente guerra. Risultò quindi evidente che l’idea di Prodi di uscire dalla crisi con il voto anticipato non fosse realistica. In questo senso sondai il presidente della Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro fu netto: ‘Voi siete matti’. La strada per le urne era preclusa. Questo fatto condizionò tutto lo sviluppo della crisi. E io feci di tutto per evitare che ci si arrivasse alla guerra. Di tutto“.
L’intervista-retroscena concessa a Francesco Verderami è tanto succosa quanto illuminante: “Arrivai a incontrare, in modo informale, il presidente della Serbia Milan Milutinovic, che era uomo molto vicino al presidente della Federazione jugoslava Slobodan Milosevic. L’appuntamento fu organizzato dal mio dentista”, di origini giuliane, con molti contatti nell’ex Jugoslavia e che aveva tra i suoi pazienti proprio Milutinovic, D’Alema lo incontrò a Roma, nello studio del medico: “Fu un colloquio drammatico”, con Milutinovic che sembrava non temere minimamente le minacce della Nato: “Non avrà mai il coraggio di mettere piede da noi, disse a D’Alema. Che oggi ammette: “Era il segno di una classe dirigente irresponsabile che non si rendeva conto di quanto stava per accadere”.
Nel 1999, D’Alema diede il via libera alle operazioni belliche dopo aver raggiunto un accordo con l’allora presidente americano Bill Clinton: “Mi disse: “Capisco che siete in una posizione difficile. E comprendo la difficoltà del tuo governo. Perciò se metterete a disposizione le vostre basi militari e in sede Nato non vi opporrete all’uso degli asset dell’Alleanza, non sarà necessaria una vostra partecipazione diretta. Le operazioni saranno coordinate da un quartetto: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania”.
Ma fu D’Alema a opporsi e volere un coinvolgimento diretto dell’Italia: “Se avessimo ridotto l’Italia al ruolo di portaerei della Nato, non avremmo più contato nulla, non avremmo avuto peso politico nella conduzione della crisi. E quintetto fu. Entrammo nel circolo dei Paesi che si assumeva piena responsabilità. Ed avemmo pari dignità con gli alleati”.
Nell’aprile del 1999, mentre americani e inglesi avevano bombardato Belgrado e gli italiani si concentravano sulle milizie serbe in Kosovo, ecoc “il momento più drammatico, al vertice Nato di Washington”. Il premier britannico Tony Blair, visto lo stallo, “sostenuto da Aznar, sostenne la necessità di una vera e propria invasione con truppe di terra. La discussione si fece molto aspra. L’Italia, la Francia e la Germania si opponevano alla soluzione”.
Il generale americano Wesley Clarke gelò tutti: “Faremo quanto ci verrà ordinato. Abbiamo dei piani, ma non pensiate che manderemmo i nostri militari a fare la guerriglia sulle montagne del Kosovo. Se decidessimo di intervenire, dovremmo entrare in Serbia”. A decidere per la frenata, fu Clinton con queste parole: “Non faremo nulla che divida l’Europa. Faremo solo ciò su cui siamo tutti d’accordo. Il presidente degli Stati Uniti non può dividere l’Europa”.
Un momento-chiave fu la trattativa per convincere Belgrado a scarcererare Ibrahim Rugova, “il Gandhi dei Balcani”: “Era il simbolo della resistenza kosovara non violenta. Lui rappresentava l’ala moderata del nazionalismo kosovaro, quella più predisposta alla convivenza etnica con i serbi. Rugova era gli arresti domiciliari e noi negoziammo la sua liberazione, d’accordo con gli americani. E sempre d’accordo con gli americani coinvolgemmo la Russia nella mediazione”, con tanto di incontri segreti a Roma con l’ex primo ministro russo Viktor Chernomyrdin e telefonata alla Casa Bianca. Di fatto, fu l’inizio dello sbocco diplomatico.
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