La sorella di Sangare: “urlava, parlava da solo, delirava”

Moussa Sangare

Awa e la madre hanno vissuto con la paura tra le mura di casa. C’erano giorni in cui il fratello “urlava, parlava da solo, delirava”

Prima dello scorso aprile, ricorda, non aveva mai usato un coltello contro di loro. Ma un giorno, il 20 aprile, il fratello l’ha raggiunta alle spalle mentre stava ascoltando la musica in sala. “Mi ha minacciato con un coltello. Io non mi ero accorta di niente, mia mamma, che da quando ha avuto l’ictus non riesce più a parlare, cercava di farmi capire che ero in pericolo. Allora io mi sono girata e Moussa si è fermato. Se n’è andato, ridendo”, conclude.

“Abbiamo fatto tutte le dovute segnalazioni, ma per mio fratello nessuno è intervenuto”: a parlare è Awa, la sorella di Moussa Sangare, l’uomo che ha confessato di avere ucciso Sharon Verzeni, la notte tra il 29 e il 30 luglio a Terno d’Isola. “Alla fine è arrivato a uccidere” si addolora la studentessa 24enne di ingegneria gestionale in un’intervista all’Eco di Bergamo. “Non doveva finire così, assolutamente no. Il nostro pensiero va a quella povera ragazza, a Sharon e alla sua famiglia, siamo molto addolorate”.

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“Quando ci hanno detto che era stato lui a uccidere quella povera ragazza, siamo rimaste scioccate. Sapevamo che non stava bene, ma mai avremmo potuto pensare che potesse arrivare a questo”, prosegue Awa che con la madre aveva denunciato il fratello per ben tre volte. A causa dei maltrattamenti, dal 9 maggio lui non abitava più con le due donne, “e non avevamo proprio più contatti. Stavamo nella stessa casa ma su due piani diversi e lui di giorno si chiudeva in casa e usciva la notte, è sempre stato solitario. E comunque negli ultimi tempi non si è più mostrato violento con noi”.

La sorella di Sangare spiega che il fratello “era un bravo ragazzo, poteva sembrare strano forse, ma era tranquillo”. Tuttavia, era diventato violento da quando aveva sviluppato una dipendenza alle droghe sintetiche, in seguito a un viaggio prima negli Stati Uniti e poi a Londra, nel 2019. Da quel momento “non era più lui”, dice Awa, che racconta poi come le due donne si sono trovate sole in questa situazione.

“Per mio fratello nessuno si è mosso – prosegue -. Abbiamo fatto di tutto per liberarlo dalla dipendenza, per affidarlo a chi potesse aiutarlo, ma lui ha sempre rifiutato. A noi, dopo aver verbalizzato le denunce, hanno dato i volantini dei centri antiviolenza mentre per un ricovero in qualche centro per fare uscire Moussa dalla dipendenza ci hanno risposto che doveva essere lui a presentarsi in modo volontario”. www.tgcom24.mediaset.it