«La guerra non restaura diritti ma ridefinisce poteri»
di Giuseppe Romeo – Ci sono storie che segnano un momento nella costruzione di un’esperienza di potenza o di impero nel corso della quale si affermano e si capovolgono prospettive diverse nel tentativo di chiudere una partita e iniziarne una nuova, magari più favorevole e con più possibilità di affermare gli interessi, e le ragioni, dell’uno piuttosto che dell’altro dei contendenti. Ma non solo. A volte si tenta l’ultima carta possibile per cercare una soluzione definitiva, mettere un punto tatticamente importante nel quadro di una gestione di un conflitto che possa portare a una soluzione strategicamente conveniente e definitiva dalla quale poter consolidare una posizione di egemonia o porre le condizioni più utili, sul campo, per negoziare al meglio i termini di una pace.
La battaglia di Kursk del luglio 1943
Nel luglio del 1943 gli obiettivi dell’Operazione Cittadella per i tedeschi erano assolutamente quelli di riorganizzare i termini di una guerra ormai segnata convinti di poter capovolgere ancora una volta a proprio favore l’andamento delle operazioni nonostante la sconfitta subita nella lenta agonia di Stalingrado per quasi un anno sino aggiungere a ridosso della resa dei conti di Kursk. La battaglia di Kursk, quella del luglio 1943 non sarebbe stata solo la fine del dominio delle capacità corazzate tedesche, dottrinalmente di tutto rispetto, ma la piena affermazione di come e in che misura si possa condurre un’operazione di frenaggio posta a premessa di un assorbimento dell’urto con un strategia di retroguardia necessaria per rispondere alla penetrazione dell’avversario costretto ad allungare la linea di rifornimento dello sforzo principale aspettando il momento migliore pe r tagliarne il flusso, isolare le forze in attacco, annientarle e contrattaccare.
Non ci sono dubbi che la guerra rassomiglia al camaleonte perché cambia natura in ogni caso concreto. Clausewitz dall’alto dei suoi moniti senza tempo richiama l’attenzione su come e in che termini la condotta di un’operazione offensiva debba tenere conto delle risorse disponibili e della capacità è di mantenere adeguato il sostegno logistico allo sforzo principale. Ma non solo.
È anche vero che se la strategia è sbagliata, la situazione non migliora aumentando i mezzi e le truppe e, a fattor comune per entrambe le parti, sembra che tale assunto si perda nella presunzione dei gradi dei rispettivi Stati Maggiori o nelle supponenze di calcoli politici che non tengono conto della complessità e dell’imprevedibilità di una guerra soprattutto se questa, come dimostrato dai fatti, si esprime in una vera e propria guerra per la sopravvivenza di un mondo quello russo nella sua pluralità di esperienza tra popoli e la ragioni di una espansione di modelli economici e politici egemonici nella loro offerta di un mondo democratico a tinte oligarchiche. Insomma, guardando oggi alla “nuova” battaglia di Kursk e riconoscendo l’assenza di uno Zukov da una parte, spiace per la reputazione di un Gerasimov, ma anche di un Rommel ucraino dall’altra, non vi sono dubbi che la spinta in avanti di Kiev può avere più di una sua ragione.
Nonostante a volte ci chiediamo, se giornalisti e i loro editori, oltre agli autorevoli esperti militari, siano alla fine esperti giocatori da Risiko estivo o se, al contrario, vi sia una lucida e necessaria percezione degli eventi che dovrebbe, come sempre, ancorare a posizioni di opportuna precauzione non solo la lettura ma la traduzione dei contenuti passati come verità dall’una e dall’altra parte. L’attacco in profondità dell’Ucraina mi sembra un paradosso non solo tattico ma strategico.
Qual è l’obiettivo di Kiev o cosa vuol provocare? Sfondare le linee russe? Improbabile. Lo sforzo di penetrazione non fa altro che allungare gli spazi di sostegno logistico degli sforzi rischiando che la Russia li attiri ancor più in profondità per poi tagliarne le linee di rifornimento e, quindi, annientare le forze ucraine. Lo insegna la stessa dottrina NATO del passato costretta proprio a fare tale scelta con il FOFA (Follow-on Forces Attack o «dottrina Rogers») considerata la consistente capacità convenzionale sovietica di schierare forze superiori su prime e seconde schiere. Una lezione che la Russia ha appreso e bene (Afghanistan docet) salvo suicidi possibili ma improbabili. Oppure, provocare una reazione incontrollata di Mosca per far coinvolgere la Nato? Magari accordando il fatto che a sostenere lo sforzo di Kiev vi siano presenze di militari della Nato. Il che, se fosse, determinerebbe un coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto e di certo esporrebbe le opinioni pubbliche europee verso una narrazione non coerente con quella ufficiale di solo sostegno e non di presenza diretta di forze dell’Alleanza.
Ciò sarebbe, comunque, possibile, ma credere nella sostenibilità di un confronto diretto tra Nato e Russia resta ancora oggi una velleità per entrambe le parti. Si potrebbe anche ragionevolmente pensare, se fosse, in un tentativo di saggiare le capacità dell’avversario. Ovvero, che tale iniziativa di Kiev in fondo possa rispondere a una sorta di necessità della Nato di verificare le capacità di risposta delle forze russe impegnate usando, ovviamente, le forze ucraine come vittime sacrificabili per necessità esplorativa. Una scelta, cui si sommerebbe la possibilità – in un quadro di intelligente, se fosse, valutazione atlantica di definire termini, modalità e tempi di annichilimento delle difese elettroniche dell’area di responsabilità russa – di valutare come rendere inoffensivi i sistemi d’arma di artiglieria limitando il ricorso all’uso di droni a loro supporto.
Tuttavia, la soluzione più semplice è quella di credere che Kiev giochi, al netto delle capacità disponibili/esprimibili in un tempo dato, il tutto per tutto cercando di ottenere una posizione di rispetto che possa essere collocata sul tavolo di un futuro negoziato a patto di riuscire a consolidare la propria presenza sui territori russi, in verità esigui, conquistati.
Il rischio, al contrario, per Kiev, è una strategia di ritorno di Mosca che, quest’ultima per quanto sorpresa dall’iniziativa ucraina, si risolverebbe nell’offrire a Kiev l’illusione di poter penetrare per poi tagliarne le linee dei rifornimenti allorquando lo sforzo ucraino sia giunto al massimo della sua estensione, annientando le forze di Kiev troppo avanzate e alla fine isolate dalle retrovie. Gli errori dei presuntuosi in guerra, d’altra parte, hanno sempre il palcoscenico. Gli arsenali ucraini sono già allo stremo e pochi e datati F16 non faranno alcuna differenza e chiediamoci perché la Russia non alza il livello di scontro anche solo convenzionalmente.
Alla fine, Regno Unito, Francia, Germania o la stessa Nato non faranno alcuna differenza. È molto più probabile che a mediare sarà un Erdogan o uno stesso Orban magari con Pechino in chiave di garante. Il che la direbbe lunga sulla credibilità di una Unione Europea ormai giunta al grottesco della sua mancata assertività (considerazione?) politica.
L’unica via di uscita è e resterà una pace di compromesso tra Kiev e Mosca definita allo stato del conflitto, oltre a una contestuale rinegoziazione e riconfigurazione del ruolo della Nato nel continente europeo. Forse, dovremmo far nostro un pensiero, per quanto cinico ma pragmatico, di Hannah Arendt collocandolo a premessa di ogni possibile sforzo negoziale futuro. E cioè, che «la guerra non restaura diritti ma ridefinisce poteri».
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