di Daniele Trabucco – La modernitá concepisce l’ordinamento giuridico quale condizione del diritto e della giustizia. Tuttavia, se questo é vero, ne consegue che ogni ordinamento, creando il suo “ordine”, avrá anche una sua specifica “giustizia” che a quell’ordine é strettamente collegata. Ogni ordine, dunque, altro non é se non la rappresentazione che dell’ordine medesimo l’uomo si fa ed impone con la forza. Non c’é piú, allora, un “ordo rerum”, un ordine delle cose, ma unicamente “l’ordine del sistema”.
In questo contesto, la giustizia si rivela quale volontá/potere dell’uomo, sia esso la volontá/potere di uno solo al comando (Stalin ad esempio nell’U.R.S.S.), sia esso la volontá/potere di una identitá collettiva che si realizza attraverso il “mito” della sovranitá popolare. Si parla, così, di “giustizia liberale”, “giustizia socialista” etc. Ció che noi erroneamente identifichiamo con la giustizia (quante volte ci si augura che la magistratura “faccia giustizia”), é in realtá un concetto variabile, modulare, dipendente dall’ideologia posta a fondamento del sistema giuridico: l’eguaglianza illuministica diventa, ad esempio, la giustizia delle dottrine socialiste etc.
La c.d. giustizia é o “un flatus vocis” o una concezione ideologica accolta dall’ordinamento di volta in volta preso in esame. Quando pensatori autorevoli come John Rawls (1921-2002), filosofo statunitense e teorico della socialdemocrazia, o Salvatore Veca (1941), che ha elaborato il concetto di giustizia come equitá, riprendendo in Italia proprio le riflessioni di Rawls, o altri si interessano al tema della giustizia, non definiscono mai il giusto in sé, come vorrebbe l’approccio proprio del realismo integrale (si veda il filosofo aristotelico di origine belga Marcel De Corte (1905-1994)), ma sempre secondo una determinata dottrina, ovvero in senso relativo.
In questo modo, precisa molto bene il prof. Giovanni Turco, bene e giusto vengono “immanentizzati”. Viceversa, in una prospettiva classica, il bene, ció cui un ente tende per natura, o meglio tende in ragione della sua essenza (la cui negazione porta all’indifferentismo), é la condizione del giusto e, dunque, della giustizia. Quando il giurista romano Ulpiano (170 d.C. – 228 d.C.) sostiene che “Justitia est constans et perpetua voluntas jus suum cuique tribuendi”, si colloca sulla stessa linea di Marco Tullio Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.) per cui la giustizia non é né l’adesione ad una legge, né la sua applicazione da parte della magistratura, ma ció che distingue il giusto e l’ingiusto secondo la natura (filosofica e non biologica) delle cose, o meglio secondo i beni e le inclinazioni (le virtú) cui gli enti tendono.
Prof. Daniele Trabucco – Costituzionalista