Jhonny Sulejmanovic, 18 anni, nato a Torino ma con passaporto bosniaco, non ha avuto scampo. Con tre proiettili nel petto è spirato un paio d’ore dopo
di Paola Fucilieri – Quel che è certo è che lo volevano morto e non potevano aspettare. Così giovedì sera, arrivati in zona a bordo di una vecchia Seat nera, dopo avergli chiesto con toni molto poco conviviali di andare a bere qualcosa con loro per un fantomatico quanto ancora misterioso «chiarimento», davanti al suo diniego cortese ma deciso, hanno atteso solo che arrivasse la notte e si addormentasse accanto alla moglie incinta all’interno del furgone grigio «Fiat Ducato» che la coppia usava come casa, parcheggiato ai margini della carreggiata di via Varsavia, periferia est di Milano, davanti all’Ortomercato e non lontano dall’aeroporto di Linate.
E poco dopo le 3, armati di mazze, martelli e pistole, sono entrati in azione in un gruppo di 4 o 5 uomini, con la violenza e la determinazione di chi ha un obiettivo preciso, ma ha anche bevuto parecchio. Jhonny Sulejmanovic, 18 anni, nato a Torino ma con passaporto bosniaco, incensurato, non ha avuto scampo. Con tre proiettili nel petto (ma i bossoli di calibro 7.65 trovati sull’asfalto sarebbero molti di più, almeno il doppio) il ragazzo è spirato un paio d’ore dopo il suo arrivo al Policlinico.
«Si vedeva che era spacciato: i soccorritori delle ambulanze lo hanno trovato agonizzante sul marciapiede, già privo di conoscenza, con i famigliari che per farlo rinvenire gli buttavano dell’acqua addosso – racconta una residente svegliata dai vetri in frantumi -. I parenti hanno fatto la spola tutta la notte qui e l’ospedale. E quando hanno saputo che il ragazzo era morto, nel quartiere lo abbiamo capito subito perché li abbiamo sentiti gridare, quindi si sono abbandonati a scene di rabbia e disperazione, addirittura lanciandosi contro alcuni automobilisti in transito».
Accanto al ragazzo gli operatori di Areu (Azienda regionale emergenza urgenza) hanno trovato e assistito la moglie, una coetanea di nome Samantha, al quarto mese di gravidanza. I sicari del marito non l’hanno nemmeno sfiorata, ma la ragazza ha assistito a ogni fase dell’assalto, e all’arrivo delle ambulanze era sotto choc, stordita dal terrore e dall’angoscia, ferma immobile tra i vetri dei finestrini laterali e del lunotto posteriore sfondati dai killer con le mazze durante l’assalto.
Sull’omicidio indagano gli investigatori della sezione «omicidi» della squadra mobile, guidati dal vicequestore Domenico Balsamo e dal dirigente Alfonso Iadevaia che, oltre alla moglie, hanno sentito in questura anche i genitori e i fratelli del ragazzo morto, accampati poco lontano al suo furgone.
Mentre la sorella di Jhonny si consola con una bottiglia di whisky e sostiene che i killer «erano zingari, proprio come noi, zingari bosniaci», uno dei fratelli, Kevin, in preda al rancore dice convinto di conoscere uno degli aggressori e anche lui spiega il motivo del raid mortale, dichiarando che qualche ora prima «mio fratello si era rifiutato di andare a bere con loro». Un movente, come dicevamo, vero a metà, ma di sicuro legato a ben altro, anche se non necessariamente a uno sgarro di natura criminale.
«Il ragazzo e la moglie si erano trasferiti da Torino a Milano da tre settimane, parcheggiando il Fiat Ducato in via Varsavia, in un posto dove però altri bosniaci gli avevano detto che non ci poteva stare e che doveva andarsene. Lui era rimasto lì.
Una scelta che potrebbe essergli stata fatale» spiega un investigatore.
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