Un imponente giro d’affari da oltre 30 milioni di euro smontato dai finanzieri del Comando provinciale di Reggio Emilia assieme allo Scico
di Felice Manti – Tanto tuonò che piovvero manette. Reggio Emilia si risveglia «capitale della ‘ndrangheta al Nord» – per usare la felice definizione di qualche settimana fa del procuratore capo della città emiliana Calogero Gaetano Paci (nella foto) infestata da imprenditori che vanno a braccetto coi boss mentre il Pd, che da queste parti controlla ogni centimetro quadrato, sonnecchiava distratto. Tanto paga lo Stato, che ci smena milioni di euro di imposte inevase.
Dall’inchiesta Minefield emerge una fotografia impietosa: nella rossa Emilia-Romagna operava un’associazione per delinquere specializzata in frodi fiscali, riciclaggio, autoriciclaggio e indebita percezione di centinaia di migliaia di euro di fondi Covid e indennità Naspi. Cinque le ordinanze in carcere, sette i domiciliari, un obbligo di dimora e tre misure interdittive, due delle quali a carico di commercialisti di Parma e Reggio Emilia, collegati alla cosca calabrese di Cutro che lì spadroneggia da tempo.
Attraverso un reticolo di 81 «società cartiere anche in Calabria, Campania, Toscana, Lazio, Lombardia, Marche e Veneto dove sono scattate un centinaio di perquisizioni (108 gli indagati, di cui 26 facenti parte di un’associazione a delinquere) il sodalizio criminale ha gestito un imponente giro d’affari da oltre 30 milioni di euro smontato dai finanzieri del Comando provinciale di Reggio Emilia assieme allo Scico.
Il blitz è stato condotto da 350 militari (250 finanzieri e 87 carabinieri), un elicottero del Corpo, mezzi tecnici dello Scico e tre cash-dog. Le attività fittizie spaziano dalle prestazioni di servizi a basso know how come pulizie generali, cantieristica e manodopera al noleggio di autovetture ed autoveicoli leggeri, commercio all’ingrosso. I tentativi di infiltrazione nel tessuto economico regionale sono stati «molteplici, con gravi e pericolose ripercussioni per l’economia legale», scrivono gli inquirenti.
In pratica, gli imprenditori che avevano bisogno di riciclare denaro facevano richiesta di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti (almeno 1.141 quelle rintracciate, per un totale di circa 21 milioni di euro) generando una pioggia di reati tributari, dalle bancarotte patrimoniali al riciclaggio. I proventi venivano ritirati sia attraverso numerosi prelievi giornalieri (con la tecnica dello smurfing), sia attraverso bonifici o assegni per importi e restituiti (al netto della percentuale stabilita) agli stessi fruitori delle fatture emesse per operazioni inesistenti grazie a un sistema di scatole vuote.
Una parte del denaro finiva in conti correnti di comodo collegati a banche e carte di credito straniere, una parte finiva in Bulgaria con gli spalloni e poi reinvestita in lingotti d’oro, diamanti o preziosi (soprattutto orologi di pregio) e l’acquisto di auto di lusso dall’Austria che poi venivano noleggiate nel territorio reggiano. Sono stati confiscati 10,5 milioni in beni e conti correnti di profitto illecito.
«Sono almeno 20 anni che la ‘ndrangheta spadroneggia indisturbata in Emilia-Romagna», ammette a mezza bocca un investigatore, anche per indagini a senso unico che hanno risparmiato il Pd. Con la falsa fatturazione estorto ed estorsore si spartiscono un vantaggio a danno dello Stato. Amareggiato, il generale della Guardia di finanza Ivano Maccani, comandante regionale dell’Emilia-Romagna, punta il dito contro la borghesia emiliana diventata mafiosa: «Anziché denunciare la criminalità organizzata ci fa affari», spodestando le paranze armate di mitra nell’ultimo granaio di voti Pd.
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