I casi Evans, Gard e Indi: tra “parens patriae jurisdiction” e “best interest” del minore

Daniele Trabucco

di Daniele Trabucco – Ieri i casi dei piccoli Evans e Gard ed oggi quello di Indi Gregory pongono alcune questioni che acquistano un significato del tutto particolare all’interno dell’ordinamento giuridico inglese e della sua tradizione di “common law”. L’ordinamento britannico, di fronte alla domanda di chi debba assumere decisioni in ipotesi di discordanza tra personale medico e famiglia, proprio come nelle situazioni riportate, ricorre all’istituto del “parens patriae jurisdiction”, cioè i giudici sono delegati dal Sovrano di esercitare l’attività giurisdizionale a beneficio di coloro che non sono in grado di prendersi cura di se stessi.

Nato nel corso del XIII secolo per proteggere i soggetti incapaci adulti, ha finito per includere tutte quelle situazioni in cui i genitori non siano nelle condizioni (ma in base a quali parametri?) di assumere una scelta confacente con il “welfare” (letteralmente il benessere) del minore medesimo. “Benessere” che non tocca solo gli aspetti patrimoniali, ma pure le circostanze da cui dipende la prosecuzione o meno di un trattamento in grado di tenere in vita il bambino.

L’ordinamento inglese, in altri termini, presume che la decisione migliore dipenda da un organo indipendente ed oggettivo, non influenzato da fattori affettivi o da altri elementi estranei.

Sul punto due rilievi critici. In primo luogo, si tratta di un sistema di una disumanità gravissima perchè tende ad atomizzare il minore come se il contesto familiare costituisse un fatto del tutto irrilevante. In questo modo, lo Stato si arroga il diritto di intervenire rispondendo alla stessa finalità teleologica che, per natura esclusiva, caratterizza unicamente il rapporto genitori/figli. In secondo luogo, è problematico il criterio del “best interest of the child” che sorregge il giudice nell’esercizio del “parens patriae jurisdiction”. Questo, infatti, è un concetto sul cui contenuto vi è ampio dissenso.

Bisogna avere il coraggio di affermare che, al pari del principio dignitario assunto in prospettiva prevalentemente giurisprudenziale come quella inglese, ci troviamo di fronte ad una “scatola vuota”, ad un “pass/partout interpretativo”, ad una “icona linguistica”: ogniqualvolta il “best interest” è stato calato in fattispecie identiche o analoghe, ha portato spesso a soluzioni antitetiche. Tutto ció, purtroppo, è perfettamente coerente con il sistema di “common law” inglese ove il problema giuridico, ma anche etico che la questione pone, al di là dei labili appigli al diritto positivo, risente inevitabilmente dell’influenza valoriale propria non della persona sui cui cade la scelta, bensì del giudice (in spregio alla pretesa di oggettività). E i risultati di morte si vedono…

Daniele Trabucco- Costituzionalista