di Andrea Morigi – Le studentesse egiziane dovranno essere riconoscibili, anche se sceglieranno di andare a scuola a capo coperto. Ma sarà proibito indossare in aula il velo integrale, il cosiddetto niqab, che nasconde tutto il volto tranne gli occhi. Qualcuno dall’altra riva del Mediterraneo ha dovuto dare l’esempio per indicarci come affrontare la sfida del fondamentalismo islamico e le tentazioni talebane. Al Cairo il ministro dell’Educazione Reda Hegazy ha annunciato che, a partire dal 30 settembre, quando inizierà il prossimo trimestre, non sarà più consentito coprirsi il viso. La norma è già in vigore dal 2015 perle docenti universitarie e nel 2020 una sentenza ne ha confermato la validità. Il che testimonia, spiega a Libero il docente francese di Geopolitica Alexandre Del Valle, che «l’islam non obbliga nessuno a portare un abito religioso settario che copre tutto il viso». Tanto che «ai vertici dell’Università di Al Azhar lavorano donne che non indossano il velo». Senza contare, aggiunge Souad Sbai, presidente di Acmid, associazione di donne marocchine in Italia, che «Rayyanah Barnawi, la prima astronauta saudita, è salita a bordo di una navicella spaziale ed andata in orbita senza il velo».
Non è solo l’influenza del fondamentalismo islamico, sottolinea Del Valle, la ragione per la quale «siamo diventati più realisti del re, nel caso specifico più musulmani degli islamici». È «l’ideologia woke, che sta tentando di far passare la tesi secondo la quale il velo rientrerebbe fra i diritti della donna. Con una motivazione di tipo neofemminista: poiché l’uomo è di natura un predatore, occorre proteggersi. Inoltre, vi sarebbe un diritto alla differenza rispetto alla cultura occidentale, giudicata colpevole di oppressione».
I problemi ormai sono altrove, come nella Svezia un tempo patria della libertà d’espressione ma dove pochi giorni fa «è stata censurata una mostra dell’artista Sadif Ahmadi che denuncia l’imposizione del chador in Iran», in coincidenza con il primo anniversario dell’uccisione di Mahsa Amini da parte della polizia religiosa di Teheran il 16 settembre 2022, ricorda Sbai. Un segnale preoccupante è «il finanziamento delle campagne per la diffusione del velo in Francia, dove ormai ci sono più radicalizzati, più estremisti, più islamisti che nel Medio Oriente», osserva Sbai. Ma «avanzano anche qui in Italia, come dimostrano le polemiche estive sul burqini, difeso come strumento contro l’intolleranza sulle spiagge di Trieste, dimenticando minacce e violenze contro le donne che si ribellano alle regole della sharia».
Dal “delitto d’onore” di cui fu vittima Hina Saleem, nel 2006, passando per l’uccisione di Sanaa Dafani da parte del padre tre anni dopo, a Rachida Radi massacrata dal marito perché si stava convertendo al cristianesimo, fino allo strangolamento di Saman Abbas nel 2021 per aver rifiutato un matrimonio combinato, l’Italia assiste a tragedie senza porvi rimedio. «Qui alcuni pm decidono da decenni ormai che la violenza è connaturata alla cultura araba e islamica. Dovrebbero seguire un corso di formazione», consiglia Sbai, e semmai applicare anche in Italia la norma che impedisce di occultare la propria identità in un luogo pubblico. www.liberoquotidiano.it