Il Piano Scuola 4.0: a chi giova? [parte prima]

Piano Scuola 4.0

“Dove comanda il denaro, le leggi non valgono niente.”
Petronio Arbitro

di Patrizia Scanu – Esaltato come una straordinaria occasione di rinnovamento della scuola pubblica, il Piano Scuola 4.0, adottato il 14 giugno 2022 come allegato del Decreto Ministeriale 16 aprile 2022 n. 161, presenta in realtà parecchi aspetti sconcertanti: per ciò che dice, per ciò che tace e per ciò che dà per scontato. Anche la modalità è anomala: come rilevato da alcuni giuristi, fra i quali il prof. Giuliano Scarselli dell’Università di Siena, il documento suscita non pochi dubbi di legittimità costituzionale, perché modifica radicalmente contenuti e funzionamento della scuola senza passare attraverso un vaglio del Parlamento.

“Se […] si provvede ad una digitalizzazione della scuola nella dimensione estesa e massiva sopra richiamata, allora par chiaro che una simile trasformazione non può assimilarsi ad una mera operazione pratica di investimenti, in quanto travolge la scuola nei suoi valori e principi primi, e dunque l’attuazione del PNRR[1] andava data con una fonte normativa primaria, e non con un regolamento ministeriale”.

Un Decreto Ministeriale, di natura amministrativa, non ha e non dovrebbe avere infatti valenza di legge.

Ma andiamo con ordine. Che cosa dice il Piano Scuola 4.0? Che il problema della scuola sono gli spazi di apprendimento (non i locali malsani e fatiscenti, le classi-pollaio, gli insegnanti precari, mal selezionati e mal pagati, la burocratizzazione del sistema, il progettificio prodotto dall’autonomia scolastica, la cronica e intollerabile carenza di fondi o l’incuria della politica), che occorrono “ambienti di apprendimento innovativi”, che l’”ecosistema di apprendimento” adatto a questa generazione di studenti richiede non solo spazio e tecnologia, ma anche formazione, organizzazione del tempo e metodologie didattiche. Con un salto logico carpiato, si conclude che tutta la comunità scolastica deve impegnarsi “per rendere sostenibile il processo di transizione verso un più efficace modello formativo ed educativo”, quello digitale. Tradotto in parole povere: bisogna digitalizzare la scuola, adattare le aule alla didattica digitale (next generation classrooms), formare obbligatoriamente gli insegnanti a utilizzarla (in tutti i gradi di istruzione), modificare i tempi e l’organizzazione scolastica in funzione delle tecnologie digitali e usare metodi adatti al contesto digitale, ovvero avvalersi “delle pedagogie innovative quali apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification” (se non capite, non preoccupatevi. Non siete i soli. La lingua coloniale non dovrebbe essere presente in un testo legislativo). Per le superiori, i next generation labs dovranno insegnare “robotica e automazione; intelligenza artificiale; cloud computing; cybersicurezza; internet delle cose; making e modellazione e stampa 3D/4D; creazione di prodotti e servizi digitali; creazione e fruizione di servizi in realtà virtuale; comunicazione digitale; elaborazione, analisi e studio dei big data; economia digitale, e-commerce e blockchain.

E perché non impiegare il tempo-scuola in attività noiose come leggere, scrivere, analizzare testi, potenziare il lessico o la capacità di argomentare studiando latino, greco, storia e filosofia, visto che le ore di lezione non aumenteranno? Perché – dice il testo senza alcuna argomentazione – questo modello formativo, fondato sulle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics: tutto rigorosamente in inglese) – sarebbe più efficace: utilizza infatti ampiamente l’apprendimento ibrido, che mescola realtà fisica e realtà virtuale. Paradossalmente, il metaverso, emblema stesso dell’autismo percettivo volontario che aliena da ogni forma di contatto sociale reale, dovrebbe ampliare gli spazi di comunicazione sociale. Come se la tragedia della DAD, dell’isolamento, della dispersione scolastica conseguente, della perdita di identità e di senso di milioni di ragazzi non fosse stata abbastanza distruttiva per questa sfortunata generazione.

Così leggiamo che l’Europa, anzi, in primis la Commissione europea non eletta, febbrilmente concentrata a realizzare gli obiettivi dell’Agenda 2030 (innovazione, inclusione, sicurezza, equità, sostenibilità: la retorica è la stessa, vuota e ingannevole; poi spiegherò perché), da quasi due decenni promuove la digitalizzazione della scuola, affinché “i cittadini europei possiedano le competenze necessarie per prosperare nell’economia verde del futuro, come le competenze digitali e lo spirito imprenditoriale”.

“Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife”.

Nel mondo fantasmagorico dell’onlife (nel quale il reale è risucchiato nel virtuale), del metaverso e dell’immersione nel mondo parallelo virtuale, nel quale i pargoli verranno allevati fin dall’asilo nido, sollevati dal peso insostenibile dello studio e della fatica intellettuale, gli studenti italiani dovrebbero miracolosamente sviluppare competenze sociali, empatia, creatività, pensiero critico (!), benessere emotivo, abilità cognitive e metacognitive, responsabilità, collaborazione, abilità di problem solving[2] e via sognando. Non piuttosto distacco completo dalla realtà, dipendenza dal digitale, narcisismo, ignoranza o incapacità di relazione. Il mondo dell’esperienza reale è assente nel documento. Nessun dubbio, nessuna incertezza. Si tratta di parole inconsistenti, vaghe e luccicanti come quelle della pubblicità dei profumi. Servono ad impressionare, a suscitare un’emozione, a creare un’atmosfera, a intortare le persone, per farla breve. Come scriveva George Orwell, “Se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero”. E qui il pensiero è completamente sciolto e nebulizzato dal linguaggio suggestivo.

Il filosofo Harry Frankfurt definirebbe questo linguaggio “bullshit”, stronzata, ovvero un linguaggio che mira a persuadere senza alcun riguardo per la verità. Non è menzogna, perché chi mente si preoccupa della verità e cerca di nasconderla, mentre al “bullshitter” non interessa se quello che dice è vero o falso[3]. Perché il suo scopo non è la verità, ma la creazione di una cortina fumogena ammaliante come il canto delle Sirene. In questo caso, il fine sembra essere la concretizzazione di un’agenda economica e ideologica insieme. 2,1 miliardi di euro non sono noccioline, e andranno in buona parte a Big Tech, alle aziende (per lo più straniere) del digitale, palesemente galvanizzate da tanta manna. Lo illustra bene, per esempio, l’articolo sponsorizzato da Vodafone sul Corriere della Sera, che un lettore sprovveduto potrebbe prendere per una notizia seria. Così la scuola verrà piegata ad interessi economici privati, secondo il modello neoliberista classico (privatizzare i profitti e socializzare le perdite), e la gente sarà contenta che finalmente la scuola italiana si svecchi e deponga i suoi abiti logori e polverosi, fatti di libri, matite e gessetti. Del resto, abbiamo ingoiato tutto, anche 40 anni di documenti e slogan che spingono verso l’aziendalizzazione della scuola e la sua subordinazione al mondo del lavoro, con la retorica della “didattica per competenze”[4].

Nel 2020, mentre i nostri ragazzi (in Italia, non dappertutto) erano agli arresti domiciliari e in DAD, il Consiglio dell’Unione europea invitava gli Stati membri a “compiere ulteriori sforzi per accelerare la trasformazione digitale dei sistemi di istruzione e formazione”, vista l’esperienza della pandemia. In direzione completamente opposta, la VII Commissione Istruzione del Senato, all’unanimità, dopo aver audito decine di esperti, licenziava nel giugno 2021 un documento breve, ma folgorante nella sua chiarezza (leggetelo!) sugli effetti delle tecnologie digitali sui processi di apprendimento. Ci spiega così quello che la ricerca scientifica seria e indipendente sa da anni: “Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite, non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri”. Non poteva essere detto in modo più incisivo. E allora? Allora si va avanti con la rivoluzione digitale e l’”eduverso”, naturalmente. Ce lo chiede l’Europa, e noi obbediamo, spesso senza neppure cogliere la contraddizione. Del resto, le istituzioni che, come il liceo Albertelli di Roma, rifiutano di applicare il Piano sono esposte al commissariamento. L’offerta non si può rifiutare. È per il nostro bene, come dubitarne?

[continua]

Prof.ssa Patrizia Scanuwww.patriziascanu.it