di Andrea Zambrano per https://lanuovabq.it – Bambini usati come bandiera per le battaglie Lgbt. Se le prove si costruiscono a processo, questo può essere un caso di scuola. È il drammatico particolare emerso nei giorni scorsi al processo Angeli & Demoni che si sta svolgendo in Tribunale a Reggio Emilia. Il 30 giugno 2018 ci fu la cerimonia di unione civile nella quale si “sposarono” Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni. Le due donne erano destinatarie di un affidamento deciso dalla responsabile dei servizi sociali di Bibbiano, Federica Anghinolfi, oggi sotto processo assieme anche alle due lesbiche e altri imputati per svariati reati.
A loro venne affidata una bambina strappata ai genitori per presunti abusi che si stanno rivelando, anche a processo, inesistenti.
Ebbene. Durante l’udienza si è scoperto che quando le due donne convolarono in unione civile, alla piccola che in quel periodo viveva con loro, venne fatta indossare una maglietta con su scritto: “Sono la figlia delle due spose”. Un’aberrazione vera e propria, anzi una doppia aberrazione: anzitutto perché le donne non erano sposate, ma solo unite civilmente e in secondo luogo perché la bambina non era loro figlia, ma solo data in affido, seppur discutibile, a loro.
In una chat dei servizi sociali, di cui non faceva parte la Anghinolfi, qualcuno criticò la sua decisione di pubblicare il video del “matrimonio omo” nel quale compariva anche la bambina: «I confini di Federica, questi sconosciuti», disse una delle assistenti sociali con evidente intento di stigmatizzare l’esposizione di una minore in uno stato protetto ai social e per un evento dall’alto valore ideologico come quello.
L’episodio mostra come l’affidamento della piccola alle due lesbiche da parte della Anghinolfi, che con una di loro era stata anche intima, fosse una sorta di manifesto ideologico per la causa Lgbt in un’ottica di affermazione dell’omogenitorialità, concetto condiviso dalle tre donne, evidentemente, ma foriero di molteplici problematiche psicologiche. Una sorta di manifesto omogenitoriale, che alla prova dei fatti ha mostrato tutte le sue carenze educative e psicologiche.
Prova ne è che le stesse donne affidatarie fossero consapevoli della loro incapacità genitoriale tanto da chiedere aiuto: «La coppia di donne – riporta Alessandra Codeluppi sul Resto del Carlino – lamentò difficoltà e chiese supporto: “Noi ci amiamo molto, ma non basta… vogliamo una famiglia con cui condividere la bambina”».
Dunque, le donne sapevano di non essere in grado di fare i genitori. Ciononostante, i servizi sociali di Bibbiano continuarono ad affidare proprio a loro la bambina, strappandola dall’affetto dei genitori, completamente nascosti a lei negli anni di permanenza presso la coppia, ben tre, nonostante il termine massimo di 24 mesi per un affido ordinario fosse stato ampiamente superato.
Ma c’è di più: un disegno della bambina venne utilizzato per un convegno sul modello Bibbiano al quale parteciparono diversi amministratori locali e con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna che del sistema affidi della Val d’Enza è stata un’attiva sostenitrice, almeno fino a quando l’inchiesta della Procura di Reggio non ha svelato il perverso mondo di falsi abusi costruiti per giustificare gli allontanamenti dei bambini dai loro genitori.
Infatti, durante le udienze stanno emergendo i tanti messaggi raccolti dagli inquirenti e portati agli atti nei quali si percepisce che la bambina avesse molta voglia di vedere il papà, il quale non era affatto un abusatore, ma si interessava a lei con messaggi, attenzioni e regali. Un affetto ricambiato dalla figlia. La stessa bimba confidava, fino a scriverlo su una lavagna di casa: “Mi manca mio padre, voglio tornare a casa”. Ma per tutta risposta, le due donne e gli assistenti sociali impedirono a lei di sapere che il padre aveva delle attenzioni affettuose per lei.
È una tecnica, quella dell’obnubilazione di una delle figure genitoriali, specie quella paterna, che abbiamo visto all’opera più volte nei casi del Sistema Bibbiano che la Procura di Reggio ha portato ora in giudizio. Una tecnica che ha fatto soffrire anche questa piccola, creandole dei traumi.
Sarà il consulente del tribunale ad attestare che ci siano stati dei danni. Al di là dell’episodio della maglietta per la “causa gay”, venne provocato un estraniamento totale della figura dei genitori e identitario: le due donne pretendevano che la bambina non si vestisse da femminuccia o dovesse legarsi i capelli per non apparire troppo “donna”. Le donne manifestavano evidentemente un eccesso di protezione della minore dai maschi – probabilmente ossessivo – ma questi elementi hanno creato in lei notevoli traumi – stando alla parte civile – anche perché vanno a intaccare la percezione dell’identità.
Insomma, anche dalle prove che stanno emergendo a processo, l’affidamento alla coppia Lgbt ha tutta l’aria di essere quello che è sembrato fin da subito: un gigantesco tentativo di rivendicare una funzione genitoriale da parte degli omosessuali, i quali, anche alla prova dei fatti, hanno dimostrato di non essere in grado di svolgere funzioni genitoriali adeguate al bene della bambina, ma solo rivendicazioni ideologiche per la loro causa omosessualista.
«Figure che – complice anche l’attività della psicoterapeuta – avrebbero spinto a farle sorgere in testa delle rappresentazioni simboliche di eventuali abusi, inducendola a creare gli scatolini del “sesso” e del “papà” e che avrebbero dovuto essere la proiezione degli abusi subiti. Dei quali, però, non c’è alcuna traccia dalle risultanze investigative e che dunque si sono rivelati falsi», come spiega alla Bussola uno dei legali della giovane, l’avvocato Nicola Tria.
Un vero e proprio choc, provato dal fatto che la bambina oggi adolescente non prova alcuna nostalgia verso le due donne né, ricordando la permanenza in casa loro, provi un moto di affetto verso di loro. Un comportamento che la dice lunga su che cosa sia stato l’unico affidamento di una minore a due lesbiche nel perverso Sistema Bibbiano.