di Emiliano Scappatura – Quando il fascismo si fu consolidato una delle leggi che lo caratterizzò fu, come è noto, quella che impose ai professori il giuramento se avessero voluto proseguire l’insegnamento. Giuramento squallido e umiliante e a cui solo una minoranza esigua trovò la dignità di opporsi. Sembrava solo una brutta pagina della storia europea ormai trascorsa.
In questi giorni leggiamo una notizia che sembra in tono minore, quasi una curiosità di quelle che riempiono gli angoli dei giornali, ma che invece se saputa leggere caratterizza bene il nuovo corso della politica europea. Il campionato francese promuove la giornata a favore della parità di genere e alcuni giocatori che rifiutano di indossare la maglia con i colori arcobaleno restano fuori campo. Si tratta, intendiamoci, di giocatori musulmani, originari di paesi dove se due maschi si prendono per mano ci sono buone probabilità che finiscano in carcere, e un certo Occidente può semplicemente guardare la cosa con il distacco che gli deriva da una presunta altezza morale. Ma io inviterei ad aspettare a snobbarli, indipendentemente da quelle che sono le vostre opinioni su omosessualità e affini. Credo che qui, con la scusa dei nobili principi, si stia combattendo (e perdendo, senza che ce ne rendiamo conto) una battaglia molto più profonda sulla libertà di pensiero.
Il fascismo, si sa, di fatto era una dittatura, ed era quindi del tutto ovvio che una volta consolidatosi intervenisse sul controllo dell’istruzione per trasmettere i suoi principi. Lo fece, anzi, in maniera piuttosto blanda, chiedendo un giuramento che si ridusse a una pura formalità, per quando di forte valore ideale. Naturalmente non tutti quei mille e duecento professori chiamati a farlo erano dei convinti fascisti o credevano a quello che promisero; erano quasi tutti, più all’italiana, dei professori che credevano che la cattedra valesse bene lo scomodo, come i cattolici che lo fecero “con riserva interiore” o i comunisti che, di fronte alla prospettiva di perdere il posto, pensarono che la rivoluzione si potesse fare anche con la tessera in tasca.
Ma qui siamo nella democratica Francia, che da sempre si vanta d’essere l’erede spirituale della Rivoluzione. Naturalmente non tutti quelli che hanno aderito all’iniziativa sono d’accordo; crediamo lo siano in larghissima maggioranza ma, come nell’Italia mussoliniana, crediamo anche qui che abbia prevalso il buonsenso, o l’ipocrisia, di pensare che anche se non te ne frega nulla o non sei d’accordo non vale la pena rinunciare a una maglia molto ben remunerata anche se per una volta te la presentano colorata. Ma in ogni cosa ci sono gli idealisti, altrimenti detti i soliti fessi, che ai principi ci credono, anche se non rendono. Così ci furono una decina di professori che preferirono mettere la dignità davanti all’interesse. E anche qui c’è chi crede che l’opinione, giusta o sbagliata, conti più della coercizione, e il risultato è lo stesso, al di là del regime politico: se non ti pieghi non hai diritto di giocare.
Non ci si venga intanto a dire di non confondere le due cose: che il fascismo difendeva principi oscurantisti mentre qui si promuovono principi di libertà, e chi non è d’accordo non merita rimpianti. Chi deve decidere quali principi vanno difesi? Ogni società ha i suoi e anche il fascismo mise davanti a quei professori principi che riteneva altissimi. Per questo crediamo che ci debba essere un confine invalicabile tra il mondo dell’opinione e quello dei diritti. Crediamo, insomma, che se vuoi giocare puoi essere fascista, comunista, terrapiattista o credere al sistema copernicano: insomma, basta che tieni le mani a posto, come la pensi è affar tuo, e non deve condizionare la tua vita lavorativa.
Invece temiamo che nell’ultimo mezzo secolo la politica abbia invaso dei campi che non le competono, impossessandosi di un mondo di opinioni per elevarle a verità e imporle come propedeutica ai diritti civili.
La democrazia, naturalmente, non avrebbe questo potere. Se infatti è costretta a decidere a maggioranza è proprio perché non possiede un criterio epistemologico di conoscenza: è costretta a dire che poiché non sa cosa è giusto, lo deve sperimentare di volta in volta, riservandosi di cambiare le sue decisioni dopo un po’ di tempo se si rivelano sbagliate. E allora le ha ammantate agli occhi delle masse con un rassicurante imprimatur scientifico. Ma attribuisce alla scienza un criterio di verità che questa sa di non potere possedere, se non vuole diventare religione.
Ha deciso, per esempio, che il negazionismo storico è un reato, perché va contro la verità. Ma la storia non ha mai parlato, ne può farlo, di verità, e può solo mettere alla berlina i negazionisti, senza minacciare il carcere per chi ne scrive.
Adesso questa democrazia per una sorta di senso di colpa, vuole trasformare razzismo, omofobia e quant’altro in reati di opinione: non si tratta più di difendere i diritti civili, mai negati, ma di volere punire chi questa opinione elevata a verità non la condivide. E chi non crede che sia una verità è un uomo sbagliato, che rifiuta evidenze scientifiche per restare nel pregiudizio. Insomma, una sorta di ministero della Verità di orwelliana memoria che si serve dell’altezza dei buoni propositi per reprimere il dissenso.
Il problema, appunto, non è di condividere, ma di rispettare chi non ci crede: noi non siamo terrapiattisti, ma non crediamo di dovere punire chi diffonde quell’opinione senza passare per primitivi. Noi, che siamo solo modesti studiosi di filosofia, siamo antichi cultori del dubbio anche per ciò che sembra evidente e abbiamo sempre avuto paura di chi vende verità. Rispettiamo chiunque, ma pretendiamo, come quei poveri idealisti fessi, contro le mode di massa inglobanti, il diritto di pensare diversamente, anche a costo di sembrare antipatici e di farci ridere addosso. E se una volta c’era la dittatura, non crediamo che se la nuova libertà sia questa allora ci sia stato un gran passo avanti.
prof. Emiliano Scappatura