Kelsen e le contraddizioni del positivismo giuridico

giustizia

di Daniele Trabucco – A partire dall’Illuminismo, e soprattutto durante il XIX secolo, con la nascita del positivismo (Auguste Comte (1798-1857)), il XX secolo e fino ai giorni nostri, ogni dibattito sull’esistenza del diritto naturale ha avuto reazioni diverse e contraddittorie. Eppure, da piú di 2000 anni, esiste una tradizione giusnaturalistica che ha influenzato il diritto dell’intero continente europeo.

Di fronte alle domande fondamentali inerenti all’esistenza umana, che possono rinchiudersi nell’interrogativo kantiano (“che cos’è l’uomo?”), il diritto naturale, ha scritto autorevolmente il prof. Johannes Messner (1891-1984), austriaco e studioso di etica sociale, puó tentare di fornire risposte di fronte ad una filosofia, quale quella contemporanea, che pretende di non poterne avere.

Sul piano strettamente giuridico è stato Hans Kelsen (1881-1973) a contestare la possibilitá dell’esistenza del diritto naturale. In particolare, nell’opera in lingua tedesca “Recht und Logik” (“Diritto e logica”), il Nostro sostiene che “la natura, da un punto di vista della conoscenza empirica e razionale, è un aggregato di fatti dell’essere, reciprocamente collegati da nessi di causa ed effetto“. In questa concezione meccanicistica il diritto naturale, per riprendere un’espressione di Adolph Leinweber, altro non è se non una “illusione dei nostri sogni”. Dall’essere, in altri termini, non puó discendere alcun dover-essere, dal momento che la natura non prescrive, non comanda.

Anche la teologia cattolica di area tedesca, soprattutto durante gli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), ha espresso dubbi circa la dimostrabilitá dello “ius naturae”: Franz Böckle (1921-1991), Josef Fuchs (1912-2005) etc. Anche oggi molti giuristi ritengono che le conclusioni di Kelsen siano dotate di una ferrea logica: dal fatto che qualcosa esista, ha precisato Ulrich Klug (1913-1993) difendendo il “padre” della scuola normativistica, non si puó concludere che qualcosa debba esistere, così come dal fatto che qualcosa debba esistere non si puó concludere che qualcosa esista. Le norme, dunque, nella prospettiva “geometrica” kelseniana, possono derivare unicamente dalle norme secondo il procedimento delineato all’interno delle diverse Costituzioni.

A questo punto sorge spontanea la domanda, cioè se davvero ci troviamo davanti ad una logica ferrea, inconfutabile. La risposta è di natura negativa. Infatti, o le norme esistono, cioé sono un”essere a contenuto normativo”, o non lo sono e, pertanto, in questa seconda ipotesi, non esistono. Ora, se non esistono, com’é possibile ricavare un qualcosa, una norma, da ció che non è: il non-essere non si puó nè dire, nè pensare insegna Parmenide di Elea (541 a.C. – 450 a.C.), “maestro tremendo e venerando” (espressione di Omero utilizzata da Platone). Se fosse vero che le norme non possono appartenere all’essere, allora l’idea che si puó avere un qualche diritto dovrebbe essere abbandonata. Non sarebbe possibile neppure il diritto positivo.

Se, invece, la norma è, esiste, è “essere” a contenuto normativo, da questa si ricava un dover-essere, una norma che ancora non è, o è in potenza, ma che diviene essere in atto allorquando il legislatore la pone. Ne consegue che Kelsen stesso, consapevole del fallimento della separazione “essere”/”dover essere”, dovette, nel 1965, superare la dicotomia per pervenire ad un diverso approdo che analizzeremo in un prossimo contributo.

Daniele Trabucco – costituzionalista