di Giuseppe Romeo – 25 aprile 2023 – Per Pietro Nenni, negli anni Venti, forse solo un 4% degli italiani poteva definirsi antifascista (Fallaci, Intervista con la storia). A distanza di anni e di fronte al crollo del regime di cui tranne i Matteotti e i Gramsci (seppur politicamente distanti tra loro) in pochi fecero qualcosa per arginarne l’ascesa come in molti passarono, a guerra finita e rientrati dai dorati esìli, al di là del guado dimenticando o facendosi dimenticare l’utile compiacenza degli anni passati.
Ciò riguardò gli intellettuali, i professori universitari e più dei due terzi dei rettori. Anche qualche intellettuale calabrese ricordato come eccellenza delle nostre lettere scrisse per «Stracittà» e «Strapaese» di Curzio Malaparte dichiaratamente pro regime.
Per non parlare dei numeri di tessera di giovani poi parlamentari della “nuova” Italia approdati da una affiliazione al totalitarismo nero a quello rosso celebrando Stalin come l’uomo migliore del mondo per affinità di coppia con un altro “Migliore”, mentre solo i Parri, i Mattei o gli Zanotti Bianco e molti come loro, rimanevano coerenti con una visione di rinascita nazionale priva di strumentalizzazioni di parte e, per questo, condannati ai margini dalle celebrazioni partigiane nel senso letterale del termine.
Un’ambiguità storica che ha visto consumarsi drammi, tragedie, vendette e scippi di potere e di storie mai raccontate nel pieno della verità necessaria: dall’improvvido attentato di via Rasella a Roma che non vide consegnarsi gli autori per salvare o condividere le sorti dei fratelli fucilati, alle tragicommedie di un post repubblichino promosso a migliore rappresentante della sinistra cosiddetta rivoluzionaria e proletaria (ha un senso oggi?.
Un Nobel del teatro, costui, quasi illuminato sulla via della liberazione ritenendo di poter contribuire ad una nuova via politica con una rivoluzione “buffa” come la sua Opera.
Insomma, l’Italia continua a dividersi sulla necessità di processare una guerra civile che per una nazione ha poco di dignitoso se non si restituisce valore e verità alle compiacenze, alle responsabilità di ogni parte con un mea culpa condiviso e definitivo.
Ecco, allora, che si festeggerà il 25 aprile in tutto il Paese con ceneri cosparse sulle teste di chi oggi ritiene di non essere un post-qualcosa o pronto ad abiurare se stesso per difesa di uno scranno.
E anche al Sud e in Calabria, la mia terra, si festeggerà. Una terra in cui al referendum vinse la monarchia. Quella monarchia che non solo permise al fascismo di prendere il potere ma che fuggì, ormai a mala parata, e non ci sono alibi di sorta a discolpa, abbandonando il Paese con un 8 settembre tipicamente italiano.
Quel settembre che vide l’Italia crollare per colpa di un regime dissennato e vanaglorioso e una politica vigliacca nei suoi Aventini trascinando con sé i martiri della Divisione Acqui, dimenticati dalla solita resistenza monocolore o affondando, nella insulsatezza di indegni Stati Maggiori, uomini e navi come la corazzata Roma.
In Calabria si festeggerà un 25 aprile non vissuto e i cui pochi partigiani non furono e non saranno celebrati con la stessa enfasi degli altri, come non veniva ricordato nel passato a Taurianova un compagno di Pertini che visse dignitosamente dei suoi ricordi senza mai essere celebrato dalla locale sezione del Pci o dai democristiani di allora forse solo perché socialista, accontentandosi del suo negozio di ortofrutta e senza scalare i gradini della politica.
Come non fu ricordata la sindaca di Scilla, in verità né al Sud ma neanche nella città di Torino dove si distinse nel sostenere perseguitati politici ed ebrei, Antonia Assunta Paladino e ci si è dimenticati dei calabresi che combatterono in Piemonte e nell’altrove italiano. La Paladino, una vera lottatrice per la libertà senza etichette e ben lontana dalla sua terra come gli altri calabresi dimenticati dallo stesso Nord libero per il quale hanno combattuto: da Vincenzo Barreca, Francesco Giugno, i Rizzo, i Marfo e altri ancora.
Il 25 aprile festeggiato in questi anni è rimasto, con buona pace dei passionari di ieri e dei nuovi combattenti senza battaglie che preferiscono poi il campo della vanità omologata in un finto impegno e cultura politica, una celebrazione di facciata perché non condiviso attraverso una lettura della storia chiara e onesta.
Il 25 aprile celebra se stesso in una nazione che vive una libertà fantasma, calpestata in questi ultimi anni da coloro che si sono sempre presentati come suoi difensori, imponendo e/o accettando misure non costituzionali e prive, se non contrarie, di ogni dignità verso l’essere cittadino: nelle cure negate, nelle cure obbligate, nelle decisioni su politiche sovranazionali.
Politiche, queste ultime, che poco hanno a che fare con l’interesse della nazione come popolo. Un popolo condannato ad una fluidità nei valori di comodo e non rivolto ad un’integrazione costruita sui valori e sulla cultura che ci distingue come Paese.
Viviamo così in una libertà apparente, tradita e dimenticata nei suoi valori perché un Paese libero non ha padroni e l’Italia ne ha tanti, troppi. Osserviamo una democrazia governata per vincoli esterni se non amministrata nell’interesse del leader del momento.
È nel monopolio poco onesto della storia, in queste “partigianerie” al limite della faziosità che si disperde ancora una volta un valore comune di riscatto e di rinascita di un Paese fermo alla sua pubertà storica che, comprendo, fa ancora comodo nel mantenere nomi, seggi e prime pagine.
Buon 25 aprile. Festa della libertà si, ma anche, e sarebbe ora, della riconciliazione nazionale.