(www.agrifoodtoday.it/ambiente) – Una quantità di cibo che potrebbe sfamare 120 milioni di persone anziché produrre quantità ridotte di biocarburanti. I calcoli provengono da uno studio commissionato dall’ong Transport and Environment (T&E), volto a capire le controindicazioni dell’usare le colture per il diesel e il bioetanolo al posto degli alimenti. In totale i suoli sfruttati per questa funzione sono pari a 9,6 milioni di ettari di terreno. Si tratta di un’area più grande dell’intera isola d’Irlanda. Se questi terreni venissero restituiti al loro stato naturale, potrebbero assorbire circa 65 milioni di tonnellate di Co2 dall’atmosfera.
Secondo i ricercatori questa cifra corrisponde a quasi il doppio del risparmio netto di Co2 ufficialmente dichiarato dai biocarburanti in sostituzione dei combustibili fossili. Inoltre, utilizzando un’area equivalente ad appena il 2,5% di questa terra per i pannelli solari si produrrebbe la stessa quantità di energia. “I biocarburanti sono un esperimento fallito. Continuare a bruciare cibo come combustibile mentre il mondo sta affrontando una crescente crisi alimentare globale è al limite del criminale”, ha dichiarato Maik Marahrens, responsabile dei biocarburanti presso la T&E.
Nuova generazione
L’Unione europea ha già deciso di porre un freno a questo utilizzo, quantomeno per quanto riguarda i biocarburanti di “prima generazione”, in particolare votando per l’eliminazione graduale della soia e dell’olio di palma dalla lista, reputati tra i principali responsabili della deforestazione. Si punta invece ai cosiddetti “biocarburanti avanzati”. Si tratta ad esempio di alghe, ma solo se coltivate a terra in stagni o fotobioreattori, residui organici, i cosiddetti “rifiuti di animali”, come le carcasse, purché non siano destinate ad uso alimentare o per i mangimi. Nella lista presente nel pacchetto RePower Eu compaiono anche i gusci di noce e le pannocchie pulite dai chicchi di mais.
Emergenza cibo
“Paesi come la Germania e il Belgio stanno discutendo di limitare i biocarburanti per le colture alimentari. Il resto dell’Europa deve seguirne l’esempio”, ha sottolineato Marahrens. I calcoli fanno ancora più effetto se si pensa che secondo le Nazioni Unite sono ben 50 milioni le persone che si trovano “in emergenza o in livelli peggiori di insicurezza alimentare acuta”. Con la crisi in Ucraina e il lungo blocco dei trasferimenti di grano nel Mar Nero, già diversi mesi fa l’Onu ha invitato i governi europei a dare priorità al cibo al posto dei carburanti.
Serre vuote
La situazione è peraltro aggravata dai prezzi mondiali dei fertilizzanti alle stelle e dalla rinuncia da parte di molti agricoltori di coltivare nelle serre, soprattutto nel Nord Europa, per alleggerire le proibitive bollette del gas necessario per riscaldarle. “La politica dell’Ue sui biocarburanti è una catastrofe per centinaia di milioni di persone che lottano per trovare il loro prossimo pasto”, ha affermato Julie Bos, consulente per le politiche di giustizia climatica dell’Ue presso Oxfam, precisando che Bruxelles “non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le automobili, ma fa anche salire ulteriormente i prezzi dei prodotti alimentari”.
Energia efficiente
Bruciare cibo per produrre carburante diventa quindi una priorità. Nello studio si evidenzia anche come l’utilizzo della terra per le fattorie solari risulterebbe di gran lunga più efficiente. Secondo l’analisi, per alimentare un’auto che utilizza biocarburanti è necessaria una superficie 40 volte superiore rispetto a quella di un’auto elettrica alimentata con l’energia solare. Nello specifico, per produrre la stessa quantità di energia, il solare avrebbe bisogno di un’area pari ad appena il 2,5% di quella attualmente dedicata ai biocarburanti. La restante parte di terreni resterebbero a disposizione dei pozzi di carbonio naturali o della coltivazione di cibo. “Questi terreni potrebbero sfamare milioni di persone o, se restituiti alla natura, fornire pozzi di carbonio ricchi di biodiversità. I biocarburanti vegetali sono probabilmente la cosa più stupida mai promossa in nome del clima”, ha concluso Maik Marahrens.