di Giuseppe Romeo – Continua tra le pagine dei giornali, nei migliori salotti da tastiera calabresi e nelle aule del Consiglio regionale la discussione sulla nuova autonomia differenziata che, per differenza, intenderebbe diversificare secondo un nuovo assetto delle relazioni tra Stato e Regioni l’architettura del Paese. Insomma, un nuovo assetto a geometria variabile proposto proprio da colui che aveva già definito in un modo autocensurante, ma non sufficiente a far soprassedere il Parlamento, una ben nota proposta di legge elettorale.
Ora, non v’è dubbio che a fronte di un rischio di marginalità progressiva delle regioni meno fortunate, o meno virtuose – lascio al lettore dove collocare queste pariah – al netto della recriminazioni, i dati di bilancio e dell’uso delle risorse nel tempo non hanno fatto certo buon gioco proprio a coloro che oggi si stracciano le vesti senza approdare né ad un mea culpa necessario, umiltà rara avis, né ad un sussulto di dignità. In questo ultimo caso, se fosse, magari accettando una sfida per ancorare il futuro ad un possibile riscatto quale effetto boomerang da restituire proprio a chi discrimina con l’ipocrisia di circostanza.
Capisco e comprendo che un atteggiamento di tale tenore presuppone una tenuta di posizioni ben precise. Ma richiederebbe, anche, un programma di rilancio economico e di crescita che modifichi non solo gli assetti politici e le “menti” della regione quanto un cambiamento di schemi comportamentali considerato che chi promuove la differenza ha fatto, abilmente, del nostro piagnisteo funzionale un motivo di attacco e, oggi, argomento nel quale dati alla mano nessuno ad altre latitudini ci farà sconti. Ora, comprendo quali siano le riserve e le preoccupazioni a condizioni date: sanità, trasporti, occupazione e aggiungiamo ciò che vogliamo.
Ma, in verità, se fossimo sinceri con noi stessi, dovremmo ricordarci che abbiamo messo molto del nostro sia come piccoli attori del quotidiano, sia come politici schierati sulle fortune del più forte. Oggi, ci troviamo a pagare il prezzo di quella richiesta delle regioni che a noi sono più vicine per prossimità politiche e per servitù varie che nell’ambiguità non risolta, neanche dal provvedimento che la prevede, nascondono il loro egoismo istituzionale dietro il regionalismo differenziato: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. E, per favore, poco importa il colore politico perché, al di là delle “moine” da belle statuine, ogni partito è assolutamente d’accordo con buona pace della solidarietà e di altre vuote espressioni del caso. La verità è che, come richiamato da molti esperti del fragile costituzionalismo italiano, l’art. 116, in particolare al comma 3, attribuisce a tutte le regioni la possibilità di conseguire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Ora, coerentemente con il principio dell’autonomia territoriale si crede di poter superare un modello di regionalismo cooperativo per giungere ad una sorta di regionalismo competitivo dove le regioni più capaci continuerebbero a correre mentre quelle a meno possibilità dovrebbero, per differenza e per spirito emulativo, porsi in competizione, quasi spronate a non perdere il passo e a dimensionare tutta la loro governance – considerata in ogni aspetto, politico, economico e sociale – ad una continua corsa contro il tempo. In questo, si vorrebbe comprendere anche quale e in che misura quel principio di sussidiarietà troverà una sua ragione in un modello che sussidiarizzerà buona parte di se stesso, con il crearsi di distanze ancora maggiori e non certo colmabili né dall’intervento di uno Stato sempre più depotenziato né per aperture verso mercati e capacità di azione politica sostenibile nel breve medio termine al Sud con risorse e capacità date.
Anzi, ogni regione che correrà per se alla fine chiuderà se stessa in una sorta di vicereame funzionale all’oligarca di turno, con buona pace della democraticità e della trasparenza. In fondo, se il regionalismo doveva rispondere ad un’esigenza di contenimento di ogni provocazione antiunitaria, favorendo l’affermarsi di un valore di solidarietà nazionale non solo sul piano politico, garantendo la prossimità di forze politiche anche di colore opposto, promuovendo il pluralismo, esso doveva anche garantire un’armonizzazione (termine caro alla tradizione europeista), cioè un avvicinamento delle possibilità/opportunità tra le diverse comunità regionali abbattendo proprio quello che è il rischio che il “nuovo” regionalismo aprirebbe: quello di una maggiore “dilatazione” delle diseguaglianze territoriali, economiche e sociali.
Patroni Griffi, in un testo del 2019, teneva a sottolineare come un’idea di regionalismo differenziato sarebbe “insostenibile nella forma di Stato composto italiano già per la semplice constatazione che la competizione richiede una “parità di armi” dei “concorrenti”. Tuttavia, sarebbe anche solo sufficiente dire che una simile e poco accorta scelta non sarebbe in linea né con gli art.2 della Costituzione, in cui si afferma un principio fondamentale di convivenza e di ragione di esistenza della repubblica, ovvero l’inderogabilità della solidarietà politica, economica e sociale e né con l’art.3 per il quale la piena e pari dignità delle comunità locali sottende la condizione necessaria affinché l’Italia sia ciò che è altrimenti non sarà.
Prof. Giuseppe Romeo – https://giusepperomeo.eu