Single e famiglia tradizionale, è avvenuto il sorpasso

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Secondo il rapporto ISTAT 2022, in Italia il numero dei single ha superato quello delle coppie con figli. Ci congediamo così da una cultura millenaria, che vedeva in coppia e famiglia le strutture psicosociali fondanti della comunità
Di: Alessia Vignali

I dati sono complessi e fotografano una società in tumultuoso mutamento: secondo il Rapporto Istat 2022 pubblicato il primo luglio, nel centro-nord le coppie con figli non rappresentano più il modello prevalente mentre sono aumentate le coppie non coniugate, le famiglie ricostituite (altrimenti definite “allargate”), i single (non vedovi) e i monogenitori (non vedovi). Tramonta la famiglia classica con figli del dopoguerra, che costituisce il 31,2% delle famiglie, superata dal numero dei single, che costituiscono il 33,2 per cento degli italiani.

Il modello del “single” è anche il più diffuso nel contesto europeo, in cui le famiglie unipersonali sono una su tre. Il Bel Paese si allinea dunque alle statistiche europee in quelle grandi scelte che sarebbe riduttivo, benché assai contemporaneo e segno dei tempi, definire “stile di vita”… con buona pace di tutta quella cultura che, tra nostalgico stereotipo e profonda verità, la connotava sinora nel mondo.

Addio dunque alle struggenti antonomasie che vedevano nel “Padrino” di Francis Ford Coppola l’epitome dell’emigrante italiano che in terra straniera fonda una stirpe, sospinto da un’eroica “fede ignorante” nella “Famiglia”, grazie alla quale infilarsi darwinianamente tra le pieghe della storia per far valere i geni del più forte e lanciarli a suon di prepotenza nell’eternità.

E addio al modello cattolico che vedeva nel Figlio la speranza di una palingenesi e salvezza, nella Madre un modello esemplare di femminile devoto nella cura e nell’amore e nel Padre un Dio che, dall’alto dei suoi cieli, è sempre lì a guidarci e a rimettere i nostri peccati. Bei tempi, quelli in cui c’era “Qualcuno”, all’epoca casualmente maschio per via della cultura vigente, ma grande e onnipotente come i genitori lo sono per il bambino, a liberarci da ogni male. Bei tempi, oppure no: ma sempre, quando si è prossimi al superamento di un modello, occorre interrogarsi lungamente sull’esatta natura di ciò che ci si lascia alle spalle, al fine di non liberarsi di parecchi bambini assieme all’acqua sporca.

Tra gli “apocalittici”, che vedono nel cambiamento un segno nefasto di sfaldamento dei valori etico-morali su cui si fondava la civiltà, e gli “integrati”, che in esso vedono una tappa necessaria della sempre più completa emancipazione del soggetto da ogni catena al grido “Fuck patriarcato” (slogan che suona, qui da noi, quantomeno paradossale), ci interessa forse una posizione più sincera nella ricerca della verità, capace di sospingersi oltre le superficiali compulsioni di un “pensiero unico” che impone quel che “s’ha de pensare”, i cui “maitres à penser sono ora Chiara Ferragni, ora i Maneskin, ora Klaus Schwab e, per esatta e in estrema antitesi, ma di ben diversa caratura intellettuale, Monsignor Carlo Maria Viganò.

In fondo gli uomini, le donne, i padri, i figli vorrebbero pensarla di più e meglio, la loro convivenza amorosa, cercando qualcosa di vicino il più possibile a una pienezza del sentire, del comunicare, dell’amarsi. Questo richiede che lo spazio degli affetti e la loro organizzazione non vengano lasciati al chiacchiericcio vuoto, “che riveste di banalità tutto quanto affronta”, ammonì la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi nel saggio “Il romanzo della famiglia”, composto nel lontano 1992 ma ora più attuale che mai. Essi non debbono nemmeno essere lasciati alle narrazioni collettive potentemente capaci di plasmare l’immaginario: gli spot pubblicitari, le serie televisive, i cartoon delle grandi major.

Occorre dar spessore alla famiglia e alla dimensione privata non liquidandole per mezzo di “assenze” o “agiti” da cui il pensiero è bandito, espulso per far vigere al suo posto un’abitudine invalsa su cui non si discute, perché trattasi di un “conosciuto non pensato”
(definizione dello psicoanalista Christopher Bollas) entratoci nella carne, ma non nel pensiero.

Dovremmo abituarci a sospettare che gli spazi lasciati vuoti dal pensiero, dal sentimento o dalla teorizzazione siano di fatto regalati a un potere che ha invece idee chiarissime su come amministrare le vite delle persone. Come sempre e quasi per magia, il pensiero dominante è infatti quello delle classi dominanti. Un esempio su tutti: l’era del narcisismo di massa, che pone l’ideale del singolo “ab soluto” rispetto a ogni legame collettivo e ne idealizza la più completa indipendenza, è di fatto l’epoca delle dipendenze: dai social, dalle droghe, dai legami virtuali.

Voler negare la naturale interdipendenza tra umani avrà come unico risultato, segnala la psicoanalisi, quello di un “ritorno del rimosso” che sposti la dipendenza più in là, verso forme ben più subdole e dannose di quelle in passato scelte magari dolorosamente, magari con amore, ma almeno alla luce della coscienza.

Tornando al “sorpasso” tra single e strutture “nuove” di famiglia rispetto alla nucleare, dobbiamo accorgerci che il cambiamento è epocale: ci congediamo da una struttura profonda non solo storico-sociale, ma anche interiore, che con le sue imperfezioni e le sue gravi mancanze ha funzionato per millenni da guida invisibile, da culla e matrice per i nuovi nati. Il mio discorso deve qui tuffarsi nello spazio della psicoanalisi, essendo questo l’ambito di cui m’interesso.

Nel nostro inconscio il maschile e il femminile archetipici, la coppia generativa e il figlio hanno un ruolo imprescindibile; siamo ancora sospinti a trovare “il nostro posto” nella catena lunghissima delle generazioni per via dell’impulso atavico a “trascenderci per non morire”. Non farlo è una cesura forte, piuttosto innaturale. Un tempo si entrava in questo speciale tipo di perennità attraverso il patto del matrimonio: un legame che suggellava l’amore di fronte alla collettività e comportava l’assunzione completa di responsabilità su quell’Altro con cui iniziare a scrivere storia nuova. Essa comportava la rinuncia alla totale disposizione di sé.

Com’ebbe ad affermare Sigmund Freud, il “flirt americano” è ben insipida esperienza, al confronto con questo “patto per l’eternità” che, nella sua (necessaria) follia, sanciva l’intersezione della dimensione del sacro nella prosaica vita d’ogni giorno, il levarsi della volontà del singolo oltre ogni considerazione concreta d’opportunità e rischio (“non sai mai con chi ti metti!”) per realizzare un ideale, quello sì, capace di collocarti con un tuo posto nell’ordine prima divino, poi più laicamente cosmico e naturale delle cose.

Ricorda ancora Vegetti Finzi che alle soglie di Tebe, proprio quando è prossimo a sposare una regina, Edipo viene interpellato dalla mostruosa Sfinge: “qual è quell’animale che la mattina cammina su quattro zampe, a mezzogiorno su due, la sera su tre?” Si tratta dell’uomo, comprende il nostro, che la mattina cammina carponi gattonando, al colmo della vita si leva su due gambe e la sera deve poggiarsi su un bastone, dunque avere tre gambe. L’enigma pone dunque Edipo e l’umanità tutta a confronto con la sua stessa caducità, con l’essenza della temporalità che si ottiene nel confronto con la verità della morte. Non a caso Edipo incontra questo limite prima del matrimonio: nel matrimonio si celebra assieme la finitudine della vita del singolo e una sua possibile eternità, in corpo e mente, uscendo dalla mera esistenza individuale, aprendosi all’altro nell’amore e dandosi una progenie.

Ma uscire alla propria pelle per aprirsi all’altro, sia esso un compagno o un figlio cui far dono di parte della propria libertà per raggiungere altre dimensioni di sé, è oggi quasi impensabile. Troppo grande è il solipsismo narcisistico della nostra era, che aborre il sacrificio e nega la dimensione e i significati dell’abisso del tempo, da cui proveniamo e cui siamo destinati.

ALESSIA VIGNALI è psicologa e dal 2021 psicoterapeuta e psicoanalista all’Istituto di Psicoanalisi Neoufreudiana Erich Fromm di Bologna.