di Manuela D’Alessandro AGI.IT – Dall’aprile del 2018 Paolo (nome di fantasia), 12 anni, vive recluso in comunità in Lombardia. Solo la madre, affetta da una patologia psichiatrica, lo può visitare liberamente, “la sua corrispondenza viene controllata, le sue telefonate sono registrate, non può incontrare i suoi amici e può vedere i membri della sua famiglia, tra cui il cuginetto a cui è legato da un rapporto fraterno, solo in una stanza piccola, vuota e sotto sorveglianza”. A una zia ha confidato di recente di non avere più voglia di vivere e di sentirsi in prigione.
La sua storia emerge dal reclamo presentato al Comitato dell’Onu sui diritti dei bambini, letto dall’AGI, da Alessandra Borsato, docente a contratto al Master Unicef sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Università di Milano-Bicocca.
L’istanza è stata scritta da un pool di esperti in materia col consenso di Paolo, espresso alla docente tramite il padre. E’ il primo caso contro l’Italia da quando esiste il Comitato (1989) e ha già superato il vaglio procedurale di ammissibilità in attesa di una valutazione nel merito.
“Vietato pattinare con la zia perché sfugge al controllo”
recluso in comunità senza motivo
Paolo è finito in comunità perché sia la madre, per la sua patologia, sia il padre, definito “immaturo” anche se non affetto da disturbi psichiatrici, sono stati ritenuti sulla base di due provvedimenti giudiziari “non in grado” di prendersene cura.
La madre è stata con Paolo in comunità fino al novembre del 2019. I giudici avevano disposto che il bambino che non ci rimanesse “per lungo tempo perché sarebbe dannoso per la sua salute mentale, sociale ed emotiva e per il suo sviluppo” e avevano raccomandato di trovare una famiglia a cui darlo in affido.
“Invece Paolo – si legge nel reclamo – pur non avendo problemi di carattere psichiatrico o giudiziario è recluso da un tempo ingiustificabile nella comunità per i problemi di salute della mamma che, nel frattempo, è stata mandata via per i suoi comportamenti aggressivi”.
Nel documento si legge che c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ nell’umore di Paolo rispetto all’ingresso nella struttura. “Ora è completamente cambiato: è infelice e svuotato della sua voglia di vivere. Le sue condizioni stanno peggiorando. Il 25 maggio di quest’anno ha riferito a un familiare andato a trovarlo che “si sente in prigione, non vede via d’uscita e non ha più voglia di vivere”. Tra gli altri episodi segnalati, il fatto che un educatore dei servizi sociali abbia negato al ragazzino di andare a pattinare con la zia e il cuginetto “perché si sarebbe allontanato troppo dalla sua vista e dal suo controllo”.
“Il padre lo rivuole e una zia lo prenderebbe in affido”
Dal 2019 a oggi, “nessun giudice o rappresentante dei servizi sociali ha disposto nuove valutazioni imparziali sulla sua salute mentale dando per scontato che nulla fosse cambiato”, nonostante le ripetute richieste dei familiari di compiere nuovi accertamenti.
Il padre vorrebbe che venisse riconsiderata la sua capacità di accudirlo e una zia sarebbe pronta a prenderlo in affido.
La richiesta al Comitato, in attesa che entri nel merito dei fatti, è di ordinare misure ad interim “necessarie e urgenti” per Paolo, facendolo uscire dalla comunità subito e affidandolo al padre o a un familiare aspettando che un giudice decida cosa è meglio per il suo interesse.
Dal reclamo emerge anche che una zia e il padre hanno chiesto “invano” ai giudici che il bambino venisse ascoltato e gli venisse affidato un curatore speciale “come previsto dalla Convenzione Onu dei diritti sul Bambino, di cui l’Italia è parte”.
Sulla vicenda pende un ricorso in Cassazione. La ricorrente ricorda che “spesso l’Italia è stata condannata per la lunghezza dei suoi procedimenti e che il trascorrere del tempo viene percepito in modo diverso da bambini e adulti. In tre anni i servizi sociali non sono stati capaci di trovare una famiglia disponibile”.