La geopolitica dei chip. Sono come i vaccini: tutti vogliono produrli

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di Alessandro Spaventa – Tra le tante cose per cui verrà ricordato il 2021 ce n’è una che non ha fatto i titoli dei telegiornali e non è diventata virale sui social, ma che angustia molte industrie europee, americane e cinesi e i loro rispettivi governi: la cronica scarsità di chip. La domanda di microprocessori è in crescita e la produzione non riesce a starle dietro. A mancare sono soprattutto i processori meno sofisticati, ma anche quelli “logici” usati per telefoni e computer sono sempre più difficili da ottenere. I tempi di consegna si allungano, le spedizioni saltano e le fabbriche di automobili e quelle di prodotti elettronici sono costrette a fermarsi o rallentare la produzione, mentre anche altri settori, tra cui difesa e aerospazio cominciano ad avvertire le prime difficoltà.

Mancano i chip, l’inferno in terra

«Al momento è l’inferno in terra» – ha dichiarato Franck McKay, a capo dell’ufficio acquisti di Jabil, un’azienda che ogni anno compra chip per milioni di dollari per assemblare prodotti per clienti come Apple, Amazon, Cisco System e Tesla. Tutti i giorni l’azienda si trova a dover fare i conti con la mancanza di cento e più componenti e deve usare tutto il suo potere negoziale per procurarseli, finora con successo. «Ma è come stare ogni giorno sulle montagne russe». E intanto i prezzi salgono vertiginosamente. Componenti che normalmente costano 1 dollaro vengono offerti sul mercato a 32 dollari, come ha raccontato al New York Times Jens Gamperl, a capo di un mercato online di componenti chiamato Sourcengine.

Produzione prenotata

La statunitense GlobalFoundries, quarto produttore di chip al mondo con stabilimenti negli Stati Uniti, in Germania e a Singapore, ha tutta la produzione già prenotata. «Al momento non solo tutti i nostri stabilimenti sono utilizzati al 100%, ma stiamo aggiungendo capacità produttiva più velocemente che possiamo» – ha dichiarato l’amministratore delegato Thomas Caulfield. Per far fronte alla richiesta l’azienda americana ha raddoppiato gli investimenti, ma ci vorrà circa un anno per avere i primi effetti sulla produzione.

Nel frattempo la domanda cresce: «a causa del Covid-19 la diffusione di tecnologia che un tempo sarebbe avvenuta nel corso di un decennio ha avuto luogo in un solo anno, nel 2020» – ha dichiarato Calufield. «Non è un evento una tantum, è in corso un cambiamento strutturale. Prima del Covid le previsioni di crescita per il settore dei semiconduttori per i prossimi cinque anni erano di circa il 5% l’anno. Ora la stima è raddoppiata».

I chip come i vaccini

Non sorprende quindi che, come con tutto ciò che scarseggia a livello globale, i chip stiano divenendo una questione geopolitica. Stati Uniti, Cina, Unione Europea e Giappone si sono improvvisamente accorti di essere vulnerabili e stanno aumentando gli sforzi per sviluppare il settore. I processori sono diventati come i vaccini, ogni nazione vorrebbe essere in grado di produrli. Ma, come per i vaccini, produttori di chip non ci si improvvisa, ci vogliono investimenti, tecnologie e tempo. E nel caso in questione molti, ma molti più soldi.
Il dominio asiatico

A dominare la scena sono le “fonderie” asiatiche che producono semiconduttori direttamente e come terzisti per tutto il mondo. Tra i loro principali clienti figurano anche i marchi storici dei processori come Intel, Broadcom, Qualcomm, Nvidia, AMD, Texas Instruments, che ormai hanno abbandonato gran parte della produzione per dedicarsi alla progettazione. Leader indiscussa è la taiwanese TSMC, seguita a distanza dalla coreana Samsung e poi da altre aziende taiwanesi e cinesi. Nella top 10 dei produttori globali di semiconduttori non compare nessuna azienda europea o giapponese e una sola azienda americana, la GlobalFoundries di cui sopra, che in realtà non è più neppure americana, ma posseduta dal fondo sovrano di Abu Dhabi.

Piani a lungo termine

Stati Uniti, Europa e Cina stanno elaborando piani d’investimento di miliardi di euro per cercare di ridurre la loro dipendenza dall’estero per le vitali forniture di chip. Ma sono piani che non avranno impatto né sulla crisi in corso né nel prossimo futuro. «Perché una nuova “fonderia” sia operativa nel 2025, occorre dare il via alla sua realizzazione entro la fine di quest’anno» – ricorda Velu Shina, partner presso la società di consulenza strategica Bain&Company – «motivo per il quale è scarsamente verosimile che quello che accade oggi possa alterare la realtà dei prossimi due o tre anni».

Vecchie glorie alla riscossa

Un tempo in prima fila, gli Stati Uniti sono ormai relegati nelle retrovie della produzione globale: in trent’anni, dal 1990 a oggi, la loro quota mondiale nel settore si è ridotta di due terzi, passando dal 37% al 12%. A parte la già citata GlobalFoundries, l’unica grande azienda americana ad aver mantenuto la capacità di produrre chip è Intel. Negli Stati Uniti la società ha quattro “wafer fabs”, stabilimenti di produzione di wafer di silicio su cui vengono impiantati i processori, sparse tra Massachusetts, New Mexico, Oregon e Arizona, cui si aggiungono le fabbriche in Irlanda, Israele e Cina. Non poco, ma di certo non abbastanza visto lo scenario globale del prossimo futuro.

Così lo scorso 23 marzo Pat Gelsinger, il nuovo amministratore delegato di Intel, ha annunciato un piano d’investimento di 20 miliardi di dollari per la realizzazione di altri due stabilimenti a Chandler, in Arizona, e la creazione di una nuova divisione, la Intel Foundry Services, che si occuperà di produrre semiconduttori anche per altre aziende.

L’obiettivo è offrire alla domanda americana ed europea un’alternativa ai prodotti dell’estremo oriente. «Intel è e rimarrà uno sviluppatore leader di tecnologia dei processori, uno dei principali produttori di semiconduttori e il maggior fornitore globale di silicio» – ha affermato Gelsinger il giorno della presentazione del progetto. «Ogni aspetto dell’umana esistenza va online e ogni aspetto che riguarda l’online funziona sulla base di semiconduttori. La gente ci sta pregando di averne di più. […] Avere l’80% della produzione della tecnologia più critica al mondo localizzato in Asia non è una via possibile per il mondo. Il mondo ha bisogno di una catena di produzione più bilanciata per raggiungere tali avanzamenti. È il nostro turno».
La dura realtà

Grandi progetti. Ma la realtà appare meno magniloquente. Al momento, infatti, Intel è assai distante dalla frontiera della tecnologia, quella dei semiconduttori da 5 nanometri, ovvero spessi 5 milionesimi di millimetro. Attualmente il chip più avanzato della società di Santa Clara, in California, è quello da 10 nanometri e, mentre TSMC e Samsung si preparano a lanciare nel 2022 un chip da 3 nanometri, l’azienda americana sta lavorando ancora a quello da 7 nanometri.

Nemici-amici

Non solo Intel è indietro di due generazioni di chip, ma anche i suoi prodotti di punta non sono in realtà prodotti in casa. Non disponendo per ora della tecnologia necessaria, infatti, l’azienda americana, pur di non perdere terreno nei confronti della rivale AMD, ha dovuto appaltare la loro fabbricazione a chi sapeva farlo: l’onnipresente TSMC. Nel 2023 la produzione data in outsourcing da Intel al colosso taiwanese potrebbe arrivare al 20% della sua produzione di microprocessori. Il produttore statunitense si troverebbe quindi nella condizione, in realtà non troppo rara nel settore, di competere con TSMC su alcuni segmenti di mercato e dipendere dalla stessa TSMC per le produzioni più avanzate. Una realtà confermata dall’amministratore delegato dell’azienda di Taiwan, C.C. Wei, che ha dichiarato che le due aziende «collaboreranno in alcune aree e saranno in concorrenza in altre» pur ricordando a scanso di equivoci che «TSMC sa come competere».

Un luminoso evanescente futuro

Il progetto del nuovo amministratore delegato di Intel è quello di fare di necessità virtù nell’immediato in vista di un luminoso futuro in cui, grazie agli investimenti in tecnologia e capacità produttiva, la società tornerà a gareggiare con i grandi del settore. Agganciare i leader, portarsi al loro livello tecnologico, non sarà però cosa semplice. «Intel ci ha già provato qualche anno fa e non ci è riuscita pur disponendo all’epoca della migliore tecnologia» – ha dichiarato al Financial Times Sebastian Hou, a capo della ricerca sul settore tecnologico di CLSA, una società di intermediazione finanziaria.

Tecnologie cruciali

Oggi il panorama appare ancora più complicato di allora. La catena di produzione dei chip è disseminata di tecnologie cruciali in mano a poche aziende, come la olandese ASML Holding NV che ha un quasi monopolio sui macchinari fotolitografici che stampano il disegno del chip sul wafer. O come la giapponese Shin-Etsu Chemical Co. che domina il mercato di prodotti chimici necessari per la produzione di chip o ancora le statunitensi Cadence Design Systems Inc. e Synopsys Inc. protagoniste nel software per la progettazione. Trainata dalla domanda di chip e dall’ondata di investimenti delle fonderie la domanda per questi e altri mezzi di produzione è in forte crescita con conseguenti difficoltà a reperire quanto necessario nei tempi richiesti. Chi può, come TSMC e Samsung, si attrezza di conseguenza e sviluppa in casa quel che serve.

Inafferrabile

Le due aziende non solo stanno investendo cifre di molto superiori a Intel, cinque volte tanto quello che ha messo sul tavolo l’azienda californiana, ma stanno concentrando parte delle loro risorse nello sviluppo di una tecnologia fondamentale per la realizzazione di nuove generazioni di chip: i macchinari litografici a ultravioletti estremi (EUV). «Più tempo Intel ci mette a superare le proprie difficoltà, più il divario si allarga» – afferma il già citato Hou – «TSMC per ora rimarrà inafferrabile».

Un’opinione condivisa da parte degli investitori dell’azienda californiana che, preoccupati dal ritardo tecnologico accumulato, chiedono che la società abbandoni la produzione, che ha dimostrato di non saper dominare, per concentrarsi su design e progettazione trasformandosi in azienda “fabless”, senza fabbriche, come hanno già fatto gran parte dei grandi marchi del settore.

Made in USA

Mentre Intel tenta una rincorsa impossibile, il governo americano ha deciso di giocare sul sicuro e ha chiesto a TSMC di investire negli Stati Uniti. Il progetto è stato fortemente voluto prima dall’amministrazione Trump e poi da quella Biden per creare capacità produttiva sul territorio americano così da poter contare su forniture sicure di processori non tanto per l’industria civile, che in larga parte richiede chip non molto sofisticati, quanto per il settore della difesa, dai supercomputer che calcolano le traiettorie dei missili fino a droni e agli stessi missili.

Per raggiungere l’obiettivo, tuttavia, Washington ha dovuto metter mano al portafoglio. Il colosso asiatico, infatti, è più che restio a creare stabilimenti in giro per il mondo preferendo concentrare la sua produzione in casa sia per ottimizzare la gestione delle sue risorse sia perché i costi sono relativamente contenuti. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’azienda taiwanese stima che questi ultimi siano più alti dell’8-10 percento. «La decisione di costruire uno stabilimento negli Stati Uniti è venuta solo dopo che le autorità hanno chiarito che si sarebbero fatte carico di tale differenza nei costi» – ha dichiarato al Financial Times un dirigente di TSMC.

Alla fine l’azienda ha deciso di investire 12 miliardi di dollari nella costruzione di un impianto a Phoenix, in Arizona, per la realizzazione di semiconduttori da 5 nanometri. Lo stabilimento sarà pronto nel 2024 e a seguito degli sforzi profusi dalla amministrazione americana, potrebbe essere il primo di una serie di sei. Il successivo, con un ulteriore investimento di 25 miliardi di dollari, potrebbe essere dedicato ai semiconduttori da 3 nanometri, al momento ancora in fase di sviluppo.

Tutti felici e contenti?

Tutti felici e contenti dunque? Forse. C’è chi teme che la politica non abbia ben afferrato le dimensioni della sfida. «Penso che quello che la gente non abbia ancora compreso è che questo non è un settore nel quale fai lo sforzo una volta e via» – sottolinea Peter Hanbury, partner a San Francisco di Bain&Company. «Se vuoi i 3 nanometri, ti costerà 15 miliardi di dollari, e poi dopo due anni dovrai spenderne altri 18 miliardi e poi altri 20. I numeri sono giganteschi con investimenti continui per mantenersi sulla frontiera tecnologica».

È questa d’altronde la ragione per cui TSMC è divenuta dominante: i suoi concorrenti hanno abbandonato il campo uno dopo l’altro proprio a causa del volume di risorse necessario per rimanere all’avanguardia. Un processo che ha suscitato timore tra i “fabless” per il potere acquisito dal colosso taiwanese, timore divenuto particolarmente forte dopo che anche Globalfoundries nel 2018 ha abbandonato la gara rinunciando a sviluppare le tecnologie più avanzate.

E l’Europa?

E l’Europa? Che prospettive ha in questo scenario? Dipende da come si guardi la cosa. Se l’obiettivo è giocare al tavolo dei grandi, essere tra i leader più avanzati nel settore, allora è meglio non farsi illusioni. Se invece l’ambizione è quella di essere un passo indietro, ma fatturare e fornire quel che serve alle proprie imprese, case automobilistiche in primis, allora non va troppo male.

I produttori europei come NXP, Infineon e STMicroelectronics, infatti, dominano il mercato di chip per il settore automotive e sono leader in altre nicchie di mercato come quello dei chip per le carte di credito. Tuttavia, pur mantenendo ancora alcune unità produttive, si sono in gran parte focalizzati sulla progettazione, evitando investimenti da miliardi di euro e affidandosi a terzisti come TSMC.

Il risultato è che la capacità produttiva europea è ormai tecnologicamente indietro di parecchie generazioni rispetto ai leader di mercato. Inoltre, alcuni dei produttori europei stanno passando di mano: la tedesca Siltronics sta per essere acquisita dalla taiwanese GlobalWafers, mentre un’altra azienda tedesca, la Diaolo Semiconductor è stata comprata dalla giapponese Renesas.
Il Recovery Fund, panacea di tutti i mali

Dal 1990 a oggi la quota di mercato globale delle aziende europee è così passata dal 44% al 10%. Il problema è avvertito dai politici europei: la UE si è impegnata a raddoppiare tale quota, portandola al 20% entro il 2030 e parte del Recovery Fund è stata destinata a «rafforzare la capacità europea di progettare ed eventualmente fabbricare la prossima generazione di supporti affidabili e a basso consumo per i processori». L’ambizione sarebbe quella di sviluppare la prossima generazione di chip, quelli costruiti su wafer di 2 nanometri.

Realtà virtuale

Come accade talvolta, tuttavia, gli obiettivi declamati a Bruxelles possono non avere molto a che fare con la realtà. «Ora siamo a 22 nanometri. Passare da 22 a 2 nanometri è come saltare dalla cima del grattacielo Taipei 101, se sbagli muori» – afferma un dirigente di una società europea produttrice di chip. «Inoltre non è così palese la nostra necessità di disporre di tecnologia all’ultimo grido. Noi siamo specializzati in chip diversi da quelli per i prodotti elettronici da consumo che dominano la domanda statunitense, perciò le riduzioni di costo derivanti dalla produzione di tecnologie all’avanguardia non sono così cruciali come lo sono per i clienti americani di TSMC».

Produrre per i cinesi?

Una visione con cui concorda Reinhard Ploss, amministratore delegato di Infineon, gigante bavarese dei chip, secondo cui il problema in Europa non è l’offerta di chip, ma la domanda, ovvero la mancanza di un settore tecnologico che renda conveniente la produzione di semiconduttori in Europa. «Avevamo un’industria informatica ed è svanita» – ha dichiarato Ploss al Financial Times – «avevamo un’industria dell’elettronica di consumo ed è andata via, in parte verso gli Stati Uniti, ma soprattutto verso il Giappone. […] In un tale scenario non sarebbe di aiuto riportare a casa la produzione. Non sono sicuro che abbia senso investire in Europa per produrre per i cinesi». E infatti Infineon, pur mantenendo parte della produzione in Germania e Austria, subappalta tutta la produzione di chip inferiori ai 90 nanometri all’estero.

Chip senza clienti

Gli investimenti necessari per creare produttori di chip in Europa sarebbero enormi e di gran lunga superiori alle attuali ambizioni del settore e potrebbero avere un senso solo se si fosse sicuri che verrebbero utilizzati sempre al massimo della loro capacità produttiva. Certezza difficile da avere considerando che la domanda europea è fatta soprattutto dai produttori di auto, che richiedono chip molto meno sofisticati. Come ricorda Ploss: «Nessuno sa quale settore in Europa userebbe i chip a 2 nanometri».

Il continente senza qualità

Certo, si tratta di una visione probabilmente condizionata dal fatto che Infineon è la maggiore azienda al mondo di semiconduttori per il settore automotive. Dopotutto negli ultimi trent’anni Intel ha investito in Europa 15 miliardi di dollari in stabilimenti di produzione e ricerca e sviluppo e in futuro investirà altri 7 miliardi di dollari. E Apple ha annunciato a marzo che investirà oltre un miliardo di euro nei prossimi tre anni per la costruzione di un centro di progettazione di chip a Monaco, in Germania. Ma si tratta di investimenti e progetti di dimensioni e ambizioni assai minori di quelle degli investimenti previsti dai colossi del settore in Cina, Stati Uniti e Giappone.

Non a caso TSMC non ha incluso l’Europa nei suoi progetti. Come ha ricordato un dirigente dell’azienda: «in Europa non vi sono altrettante buone ragioni per investire e gli europei dovrebbero decidere cosa vogliono esattamente e se sono in grado di ottenerlo con le loro aziende». Insomma, servono visione, capacità di decisione e risoluzione. Non proprio le qualità che vanno per la maggiore a Bruxelles e in gran parte delle altre capitali del continente.

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