L’accesso alla camera di lettura era una scansia rotante che si girava da un anonimo locale dispensa, disseminato da stagioni accatastate di ricordi, da dove si bypassava senza fare rumore, con un chiavistello male oleato.
All’interno della culla inviolata, le serrande chiuse proteggevano il silenzio dei volumi dormienti, in un sogno che continuava a ripetersi.
Strisce di scrittori si susseguivano per data di pubblicazione, come ritratti di un’epoca andata in disuso. La scrittura saliva fino a toccare le nervature della travatura che curvava sotto il peso del palazzo. Avevi messo mano ai più antichi manoscritti, correlati da anime celesti.
La loro collocazione era nella zona più bassa; un volume consistente spiccava per tinte vive, smorzate solo dall’ombra che allontanava la percezione, in un ricordo annebbiato di remoto.
Le facciate di carta cinquecentesche si rispecchiavano in un riverbero d’oro screziato da arabeschi, dentro un’eco di virtuosismo strumentistico che solo a Venezia si riscontrava.
Le pagine avevano perso la flessibilità di un tempo e nel voltarle, evitavi qualsiasi onda potesse lederle. Seguivi le lettere d’inchiostro rosso sangue e i disegni di grafite incisi sull’avorio invecchiato, calandoti negli splendori di un tempo che riemergeva oltre la polvere.
Il Cima da Conegliano, pittore, a cavallo tra la conclusione medievale e la primavera rinascimentale, aveva lasciato questo testamento illustrato in tavole esplicative di disegno, manoscritto da note del fare di bottega, in dettagli su miscele di pigmenti impiegati, nell’allestimento mistico del dipingere la via del Salvatore, con la vischiosità ottenuta dall’invecchiamento degli oli di lino e papavero.
Il salotto era vestito dall’ovatta di un velluto blu cenere, dove si proiettavano i diamanti luminosi che spiovevano da un fioco lampadario di vetro di Murano, ancora integro.
Nell’oblio della sera avresti potuto percorrere il lavoro meticoloso, in dettagli riportati da un mondo di estetica idealizzata.
Il libro era una porta lasciata socchiusa dal predecessore e avresti dovuto interpretare il rebus dei messaggi in codice.
Dopotutto non era così distante, conoscevi l’artista nei movimenti lasciati dai suoi pennelli, ti eri avvicinato a pochi centimetri, passando a setaccio indizi lasciati nelle pale d’altare, in visite fuori orario, munito di una scala presa in sacrestia.
La manualità, un tempo, era stata l’unico attestato di regia. Oggi la sostanza era stata sconsacrata in un’arte ingenerosa. L’amore alla storia avrebbe salvato l’ulcera all’impulso creativo, in una ricucitura delle ferite di guerra.
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