Bolle di Sapone – rubrica “Liberi Tutti” di Sferico

Pittura Filosofica di Sferico “il Peccato d’Origine” 130x130cm. olio, ambra, oro zecchino su tela
Bolle di Sapone
Le cupole di San Marco erano grandi bolle di sapone che rispecchiavano i principi del cielo e accoglievano il suono per diffonderlo a tutto tondo, in ogni parte ti trovassi. La messa illuminava la basilica negli antichi splendori dell’oro, istoriati dai seguaci martiri del Nazareno. Le tessere di sole si inoltravano, come particelle su corpi glorificati.
Mentre gli interpreti del coro si bilocavano in qualsiasi percorrenza inverosimile, un momento sentivi un acuto provenire da dietro le balaustre che accerchiavano la navata centrale, per poi smorzarsi in un’eco sorda su quelle più nascoste, laterali.
Cercavi un viso d’angelo in carne ed ossa che si affacciasse. Ne sentivi la voce, prima in fondo a destra per poi procedere in un diesis, proprio davanti a te, alla fine lo localizzavi nel centro dell’apside, sul cuore del Messia.
La convessità accoglieva l’orchestrazione di Monteverdi, come da dentro la pancia di una mamma gravida. …Nascevi ancora.
Dalla cupola centrale era sospeso un pendolo sensibile, fiorito di fiammelle pacifiche di candele, contenute in bicchieri a pasta di vetro di Murano rosso purpureo. Questo era il compasso che probabilmente servì a tracciare la prima forma circolare, sopra le elevazioni murarie della cripta, contenente le ossa dell’apostolo. Quel moto perpetuo si era protratto fino al presente e avrebbe preso un giro largo al giungere dei giorni ultimi.
Vederlo immobile avrebbe continuato a rasserenare tutti. …Ma fermo, non era mai.
Sferico
“l’Angelo dell’Apocalisse” Opera originale, minerali, fatta a mano, finitura brillantinata in bianco opaco 90x68x43cm
Le Lacrime di un Clochard 
Un’anima sub gridava d’angoscia un urlo straziato, messo sotto sequestro dalla sordina dell’indifferenza, per riaffiorare nitido, su una traiettoria di orme anonime.
Eri rimasto sulla prima corsia, senza mai compiere un sorpasso dei mezzi pesanti, nella competizione della corsa. Ti eri rifugiato nel metabolismo della precarietà, pendolare in ricoveri notturni di fortuna, rimediati nell’improvvisazione giornaliera e il riciclo di tutto quello che era già stato usato e solo Dio in persona avrebbe potuto consolare la tua solitudine.
Avevi accettato di aver perso lavoro, moglie, figli e amici per sempre, in un’inarrestabile escalation di condanne. Il tuo habitat si era sgualcito in un sogno censurato dalla nebbia della lontananza affettiva.
L’oblio, aveva preso tutto il campo interattivo, interrompendo il flusso migratorio iniziato nel primitivo dell’adolescenza.
Agivi per tenerti in vita e non affogare nel pianto che era stata la lente d’ingrandimento, attraverso la quale ti eri trovato di fronte alla verità.
Le ipocrisie ti sfilavano davanti e, sempre più di rado, i passanti ti avrebbero considerato, dentro lo sguardo, in un flash che li avrebbe salvati dal loro alter ego.
Disegnavi denunce all’ipocrisia nei graffiti, su muri di delimitazione sociale, con enigmi di una scrittura criptata.  La tua assenza avrebbe segnato il vuoto, nel valore aggiunto di uomo buono, in una malinconia post traumatica di un pezzo di pane negato.
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